Magister bibendi, il cerimoniere - Vinarte

Abbandonando il ruolo di moderatore nei dibattiti filosofici che aveva nel symposion greco, rimane la figura del «simposiarca» che però a Roma si chiama Magister bibendi, che tende ad assumere in modo più marcato il profilo di vero e proprio antenato del sommelie

Come nella lingua greca, dove vengono usati due distinti termini: àeraton per il vino puro e òinos per la bevanda a cui era stata aggiunta acqua, anche nella lingua latina, durante la cerimonia di preparazione del vino da servire, troviamo due voci diverse. Merum era il vino puro, derivato dalla vendemmia e conservato in anfora, vinum era invece la bevanda che miscelata con acqua, veniva servita a tavola. E come accadeva presso i greci, sulle tavole di Roma, nessuno beveva del merum senza allungarlo con l’acqua a meno che l’annata fosse stata funestata da piogge torrenziali e quindi il mosto che ne usciva, dato la povertà delle uve, era già stato allungato in cantina (Marziale ep. 1,56).

L’acqua con cui tagliare il merum doveva essere di ottima qualità, e a questo punto vorremmo far notare ai lettori come nessun popolo abbia mai avuto a disposizione giornalmente tanta acqua quanto i romani, soprattutto in epoca imperiale, si parla di ca. 1000 l al giorno per cittadino. Ci permettiamo di citare i principali acquedotti che fornivano Roma: Aqua Appia (312 a.C.), Anio Venus (272 a.C.), Aqua Marcia (146 a.C.), Aqua Julia (35 a.c.), Aqua Virgo (22 a.C.), Aqua Claudia e Anio Nova (38-52 d.C.), volute da Caligola e da Claudio.

Il merum che saliva dalle cantine contenuto nelle anfore di una forma che potevano essere trasportate per mano o nei pithoi di dimensioni più piccole. In media erano dei contenitori della capacità di 20-30 litri, resi impermeabili con strati di pece o resina, spalmato sulle pareti interne, dai quali al momento del consumo, il merum veniva travasato in recipienti da tavola filtrandolo con appositi colini. Il travaso era una vera e propria cerimonia e come tale veniva celebrata dal magister bibendi, e vissuta dai commensali che assistevano. Era insomma l’occasione, come succede oggi in certe degustazioni, per esibire un po’ di teatro.

La filtrazione era molto importante, non solo per separare il liquido dalla feccia, che nel tempo si era andata a depositare sul fondo dell’anfora, ma anche per eliminare i frammenti di pece o resina che si erano eventualmente staccati dalle pareti interne, ed anche perché a quel tempo non esistevano i tappi né cavatappi, aprendo quindi la bocca dei contenitori si doveva per forza far cadere all’interno dello stesso dei pezzetti di argilla, calce o ceralacca con cui erano state tappate.

Il magister bibendi su di una tavola attingeva da un’hydria l’acqua, versandola in dosi che reputava giuste in un «cratere» mischiata al merumpreparando così il vinum. Sul pianale c’erano pure delle ciotole contenenti miele per addolcire il vinum e diversi aromi vari come il finocchio selvatico, farina di mandorle, origano, artemisia, ecc., inoltre c’era una serie impressionante di mescoli e altri colini. La preparazione del vinum da parte del magister bibdendi, potrebbe essere paragonata alla performance fatta da un abile sommelier dei giorni nostri, durante la decantazione di un vino maturo.

Una volta completata e resa omogenea la miscela, la si poteva attingere direttamente dal «cratere» oppure servito in un oinoche, per mezzo di uno schiavo detto minister vini, che lo versava nei vari vasi potori.
In ogni banchetto era presente un arbiter costui stabiliva la quantità d’acqua da aggiungere. Lo faceva per evitare che una ubriacatura collettiva facesse degenerare il convivio. L’arbiter veniva scelto di volta in volta tra i commensali, ma siccome aveva l’obbligo di restare assolutamente astemio, di certo possiamo affermare che la carica non fosse molto appetita. Andò che alla fine si decise di affidare la designazione ad un sorteggio per mezzo di dadi.

Simile al nostro bicchiere era il poculum, all’inizio di legno o di terracotta e più tardi di metallo o vetro. Molto usato per il vino era anche lo scyphus, una coppa fornita in anse. Per i raffinati c’era la phiala, una piccola coppa senza anse, ma in argento o addirittura in oro, un po’ meno popolare e meno larga della «patera», usata più che altro in ambito liturgico. Il calix spesso fornito di anse, era molto simile alle odierne (un po’ passate di moda) coppe per il moscato, ed è entrato a far parte della liturgia cristiana, così come il ciborium, una coppa modellata sul baccello di un frutto proveniente dall’Egitto (colocasia). Di capacità superiore al calix era il canthàrus (che era attribuito a Dioniso nelle varie raffigurazioni) ed era una coppa su un piede elevato così come il carchesium, caratterizzato dalle grandi anse che dal bordo scendevano fino alla base. Inoltre c’erano il cymbium e lo scaphium, sorta di bicchieri dalla forma di barca, riservato ai vini più pregiati, per le fastose cerimonie liturgiche veniva usato il rhytium un corno ornato d’oro. Per la ristretta cerchia delle persone ricche, per bere venivano usate le diatretae, delicatissime coppe di cristallo.

Senza la pretesa di formulare giudizi, ci sembra di poter arguire che la bevanda chiamata vinum sorseggiata dai romani (ne parleremo prossimamente in modo dettagliato), aveva ben poco in comune con il vino a cui si è abituato il nostro palato. Nell’85 d.C. a Roma nel Forum Vinarium (possiamo affermare che fu la prima Enoteca al mondo), si elencavano più di 155 vini di diversa provenienza. Nei giudizi del più conosciuto studioso di problemi agricoli dell’epoca Columella Lucio Giunio Moderato (Cadice I sec. a.C. – Roma I sec. d.C.), che ci ha lasciato un trattato che riveste enorme importanza «L’arte dell’agricoltura» sta scritto: «Siamo costretti a bere il vino delle Cicladi, delle contrade iberiche e della Gallia. L’agricoltura sta infatti decadendo proprio perché quel poco che si fa è affidato agli schiavi, grandi proprietari non si occupano di niente se non di gozzovigliare e i cittadini non amano più il lavoro della terra».

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Sauvignon

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/ Davide Comoli