Vino nella storia – I primi riferimenti al vino sono in caratteri cuneiformi e risalgono a quasi 2500 anni avanti Cristo
Da millenni il vino è presente nella vita dell’uomo. Molte società gli hanno dedicato un po’ della loro vita, un po’ del loro pensiero, un po’ della loro arte, un po’ della loro fatica e molte società gli hanno attribuito dei valori.
Il più antico documento reperito fino ad oggi dagli archeologi, che riporta un esplicito riferimento al vino è scritto in caratteri cuneiformi ed è datato tra il 2350/2450 a.C.
È contenuto in una iscrizione dove vengono enumerate le imprese di Urukagina, sovrano sumerico di Lagash. Fra le sue gesta degne di lode, è segnalata la costruzione di un deposito, dove veniva immagazzinato il vino in grandi vasi.
Secondo l’iscrizione, il vino proveniva «dalla montagna» e, secondo studiosi della cultura mesopotamica, questo riferimento potrebbe indicare una parte pedemontana del Caucaso, costituita dall’Anatolia Orientale.
Dopo questa prima citazione il vino compare sempre più spesso negli antichi testi in cuneiforme. Si tratta soprattutto di documenti commerciali. Migliaia di tavolette testimoniano un fiorente commercio d’importazione che si svolgeva per via terra e per via fluviale. Il punto nodale di questo commercio con il nord era Karkémish, grande porto sul fiume Eufrate, poco a nord di Aleppo; Eman era invece il porto di contatto verso l’Occidente per il collegamento con Aleppo, Canaán e i porti della costa mediterranea, come Biblos e Ugarit, celebri zone reputate per i loro vini.
Lungo l’Eufrate navigava una flotta specializzata nel trasporto del vino e grazie alla decifrazione delle tavolette, possiamo persino conoscere il nome degli antichi mercanti di vino che operavano in Mesopotamia. Veniamo così a sapere che il costo del vino in queste terre ricche di cereali era molto alto. Il vino veniva venduto a un «siclo» ogni 20 l, vale a dire un prezzo 250 volte superiore rispetto a quello del grano.
Il vino si configurò come prodotto di lusso, destinato agli dei, ai grandi re, alle classi più agiate, divenendo strumento per manifestare la generosità regale.
A partire dal 1700 a.C. circa, iniziarono a impiegare aggettivi per qualificare le diverse tipologie di vino. Innanzitutto, crearono la distinzione tra vino giovane e vino vecchio, poi definirono il buon vino, di buon gusto, rispetto a quello ordinario. Nello stesso periodo comparvero i vini forti, dolci, molto dolci, ma anche amari, aggiunti forse da estratti di mirto. In merito al colore si trovavano vini chiari e vini rossi, addirittura con sfumature «occhio di bue», a noi poco chiara come definizione.
È con il 1500 a.C. che alcuni luoghi di provenienza dei vini incominciarono a rivestire una certa importanza e notorietà. Si trovavano soprattutto nella regione siro-armena, e tra questi siti importanti figura Helibunu (la fertile Helbon).
Più si saliva verso il nord della Mesopotamia, più il vino veniva citato. Sul medio Eufrate nel paese di Suhu, si produceva il vino di una certa fama. Più a nord nel Regno di Mari, il vino era molto più citato della birra. Il re, la persona più ricca e potente del Paese, ne possedeva importanti riserve che teneva sotto chiave nel suo bit kanni, il magazzino delle rastrelliere, attrezzato per poter sistemare le anfore appuntite, chiamate karpatu, recipienti in terracotta usati per il trasporto e la conservazione del vino.
Nelle cantine reali si tenevano registrazioni molto precise sull’entrata e sull’uscita del vino. Piuttosto generici sono invece i riferimenti sulle operazioni di cantina come travasi, tagli e mescolanze. Si sa però che esistevano degli esperti che presiedevano a queste operazioni, che assaggiavano il vino e stabilivano quando considerarlo pronto per essere immagazzinato o pronto per essere spedito.
Nel nord della Mesopotamia, il vino sembra addirittura che avesse quasi soppiantato la birra, pur restando quest’ultima la bevanda nazionale. Sempre nel nord è stata ritrovata, da un gruppo di archeologi, la città di Karanà che significa «vinosa», un toponimo fortemente evocativo della realtà locale.
Negli archivi del palazzo di Mari, oltre alle tavolette, hanno delle fitte rastrelliere che custodivano le riserve reali di vino, su talune di esse ci sono state trasmesse alcune curiosità sul modo in cui si beveva.
Sappiamo così che a Mari si mescolava al vino, acqua, miele ed essenze aromatiche. Alle tavole più esclusive si beveva il vino raffreddato con il ghiaccio. Questo si raccoglieva d’inverno sulle montagne e si conservava in appositi magazzini (ne abbiamo visitati alcuni in un nostro recente viaggio in Iran). Bere vino era indice di festa, di allegria, siglava la conclusione di un contratto, simboleggiava la riconciliazione e l’omaggio verso gli dei.
Un’iscrizione su una tavoletta datata fine II millennio a.C., che accompagnava un dono di vino a un re di Babilonia, riporta questo augurio: «Che il mio Signore beva la vita, bevendo il vino amaro di Tupliash, resto dell’offerta alla dea Ishtaran, che ti ama».
Interessante anche la descrizione di un memorabile banchetto che venne organizzato all’inizio del I millennio a.C. in Assiria nella città di Kalhu, l’odierna Nimrod.
Il re per celebrare il suo potere aveva fatto costruire uno splendido palazzo in cui per diversi giorni fu preparato un monumentale banchetto al quale parteciparono 69’574 invitati. Il grande Assurnasirpal, fu grande anche nell’offerta di libagioni: per suo ordine distribuirono 12mila otri di vino ed altrettante giare di birra, le due bevande considerate le più richieste e più amate dalla civiltà mesopotamica. La birra a base di orzo era la bevanda più comune, il vino la più pregiata e segno di elevato stato sociale.
Filari della Luna
Salendo da Bioggio, la strada con una lunga successione di curve ci porta a Bosco Luganese, ridente villaggio che s’affaccia sul golfo di Agno. Tra i due villaggi aggrappati alla montagna troviamo i vigneti dove, dal 1989, Umberto Monzeglio, con l’aiuto del figlio Matteo – lavorando duro per liberare il terreno dalle sterpaglie, regno dei cinghiali – ha dato sfogo alla sua passione: quella di produrre vino. Lavorare la vigna in queste zone è una vera fatica; qui tutto si fa manualmente, come d’altronde succede in quasi tutto il nostro Cantone e questo, dobbiamo ricordarlo ai nostri lettori, incide sul prezzo, in quanto si tratta di una fatica da «Viticoltura Eroica».
Filari della Luna è un nome poetico ben appropriato a questo Merlot: guardare le luci lontane di Lugano tra i filari delle vigne, abbarbicate sui pendii che salgono a Cademario, alla luce della Luna è un’esperienza indimenticabile.
Con i suoi intensi profumi di piccoli frutti rossi e leggera speziatura, con i tannini vellutati e la persistenza gusto/olfattiva, il Filari della Luna è l’ideale compagno di una cena romantica, magari guardando le «stelle cadenti» nella notte di San Lorenzo.
/ Davide Comoli