L’antica Roma, tra divieti e trasformazioni - Vinarte

Vino nella storia – Nell’Urbe, dove la donna per molti anni avrà la proibizione di bere il nettare di Bacco, il ruolo di questa bevanda si trasforma da scioglilingua a piacere per il palato – Prima parte

Racconta Catone il Censore (234-149 a.C.) autore di Liber de agri cultura, che nella Roma dei tempi di Romolo, i mariti potevano far valere sulle mogli il cosiddetto «ius osculi», il diritto del bacio. Il singolare privilegio aveva ben poco di romantico e non era di certo il preliminare di una qualsivoglia forma di approccio a scopo sessuale. In modo molto più prosaico si trattava di un controllo sul contenuto della cantina, dal momento che un bacio sulla bocca della moglie costituiva il modo più semplice per accertarsi se ci fosse stata violazione di uno dei divieti più rigorosi imposti dalla legge di Roma alle sole donne: vietato bere vino.

Oggi ci scappa un sorriso pensando a quell’usanza, ma la cosa è più seria di quanto potrebbe sembrare, perché accertata la violazione le conseguenze erano molto spiacevoli. Plinio, il Vecchio, nel suo Naturalis Historia (Liber XIV – 1313) riporta: «La moglie di Egnatius Metellus, per aver bevuto vino da una botte, fu uccisa a bastonate dal marito, che Romolo assolse dall’imputazione di assassinio». E ancora Plinio ci informa che in tempi meno sanguinari «il giudice Gneo Domizio (192 a.C.) sentenziò che una donna aveva bevuto, all’insaputa del marito, più di quanto richiedesse il suo stato di salute e la condannò all’ammenda della sua dote». Che era pur sempre una grande legnata per la poveretta.

Per assurdo che possa sembrare ai giorni nostri, quella legge era stata suggerita da problemi reali, facili peraltro da decifrare. Ai tempi della fondazione di Roma (754 o 753 a.C.), i luoghi in cui sarebbe sorta l’Urbe, erano una zona popolata da pastori, con un’agricoltura quasi inesistente. Per questo la vite, nel suo lungo cammino verso il nord della Penisola, aveva «saltato» la regione, installandosi invece in Etruria.

Quando più tardi l’insediamento fondato da Romolo si era sviluppato lungo il corso del Tevere e aveva assunto l’aspetto di una città, il vino era considerato un bene che poteva, tramite l’importazione, essere usato con parsimonia. Così ci informa Plinio: «che Romolo libasse con il latte e non con il vino».

Il vino nell’Urbe, come bene corrente arrivò solo in un secondo tempo nei bagagli di Numa Pompilio, etrusco e secondo re di Roma (715-672 a.C.) che oltre i campi volle che una vite, un fico e un olivo, fossero piantati come gesto simbolico nella piccola piazza che sarebbe diventata il Foro.

Peraltro al frutto della vite, la Roma delle origini, dovette qualche dispiacere, infatti in poco più di cent’anni, l’area dei sette colli era stata occupata con grande facilità almeno due volte. La prima dalle armate dell’etrusco Porsenna e poi dai Galli di Brenno, il quale ai romani che timidamente mercanteggiavano, oppose il ferro della sua spada e l’inesorabile: «Vae victis!» (Guai ai vinti!). Quella volta gli dèi dell’Olimpo chiusero un occhio mandando Furio Camillo, che sopraggiunse mentre i Romani stavano pagando i tributi e che «con il ferro e non con l’oro» riuscì a salvare la patria. Ma torniamo al vino: con l’andar del tempo perfezionarono i loro sistemi di viticoltura e diventarono maestri anche nella sua produzione.

Tutto è narrato con meticolosità dai vari Catone, Varrone, Columella, Plinio, solo per citarne qualcuno. Da notare però che anche in momenti più tecnicamente avanzati, la vendemmia e la pigiatura mantennero sempre il carattere di una solennità religiosa, dove il mistero della fermentazione conferiva sacralità al vino. Alla vite e alla viticoltura, erano preposti alcuni «dèi minori»: la dea Puta presiedeva alla potatura e il dio Termine presiedeva ai paletti che delimitavano le vigne, mentre ovviamente Bacco (Dioniso) per i latini, era a capo di tutto.

Il vino incominciò a circolare in abbondanza sulle mense di Roma, al punto che la città arrivò a dotarsi di un «portus vinarius» (visitate Ostia antica) per l’arrivo e lo stoccaggio dei vini e di un «forum vinarium» per le contrattazioni. Da notare comunque che il commercio di vini restò in mano a quegli abili commercianti che erano gli Etruschi, come testimonia un’iscrizione del 102 a.C., la quale ha consentito di identificare i resti di un «magazzino del vino», in prossimità del Lungotevere della Farnesina, denominato «Cellae Vinariae Nova et Arruntiana»: il termine «Arruntiana» indica il nome Arrunte, di un certo etrusco che ne era il proprietario.

Si andava affinando anche il palato dei consumatori e di conseguenza i vini venivano collocati in una graduatoria che ne riflettevano le qualità e più ancora i dettami della moda. Così pur avendo vigne sulle porte di casa, e cioè lungo le pendici dei Colli Albani, i gusti di Roma si orientavano piuttosto su vini prodotti e provenienti dalle isole dell’Egeo o dalle campagne della Magna Grecia.

Questo, senza ombra di dubbio dimostra ancora una volta l’importanza che ebbe il vino nella società romana e greca.

Anche la copiosità di vasi, anfore, brocche, crateri, mestoli, colini, coppe e ciotole, mantengono le stesse funzioni con gli stessi nomi greci. I musei ne sono pieni, testimoni del culto per la tavola.

Quello che però ci colpisce è che a Roma sparisce il «symposion» inteso come incontro finalizzato al piacere di bere e conservare. Il vino non è più considerato soltanto come un mezzo per meglio stimolare la lingua e il cervello e neanche la conversazione libera e disinvolta. Nell’Urbe si mangia e si beve (come si fa oggi) senza secondi fini, per il solo piacere della gola e il poter partecipare a un rito collettivo.

Il vino scorre a fiumi, ma non è più con una finalità «parafilosofica», ma alimentare, dove la figura del «simposiarca» a Roma si chiamerà «magister bibendi».

Scelto per voi

Triade

Sulla sponda del fiume Ticino, sulle prime pendici del Ceneri che sovrastano la piana di Magadino, Davide Ghidossi, laureato a Changins, continua l’opera iniziata dal padre Gianfranco. Con grande passione, con uve provenienti da Cadenazzo, ha prodotto l’ottimo vino che vi presentiamo questa settimana.

Triade è un vino affinato in barriques di secondo passaggio per 16 mesi. Tre sono i vitigni vinificati separatamente che lo compongono (da qui il nome), il Merlot, principe dei nostri vigneti, il Diolinoir (Robin Noir x Pinot Noir) e Gamaret (Gamay x Reichensteiner). L’unione dei tre vini ci dona un prodotto ricco di colore e di corpo, mentre i ricchi profumi di bacche rosse arricchiscono il Triade, con note speziate che restano a lungo nelle narici: caldo e piacevolmente fresco, dai tannini presenti e setosi. Lungo è il suo finale in bocca e per la sua struttura può rimanere qualche anno nella vostra cantina. Noi però lo vogliamo bere in questo periodo, come accompagnamento al «capretto nostrano» al forno o con delle costolette d’agnello al timo e rosmarino.

/ Davide Comoli