Vino nella storia – A confronto i punti di vista di un poeta e di un agronomo ante-litteram
Nell’età aurea di Roma, in seguito alla stabilizzazione delle condizioni politiche, fu reso possibile e s’incoraggiò il ritorno alle campagne; la viticoltura e l’enologia rappresentarono due aspetti importanti per la vita economica e sociale di quel periodo.
Già antecedentemente, personaggi come Catone (234-149 a.C.) e Varrone (116-27 a.C.), avevano composto trattati di agricoltura, ma nell’epoca più fiorente dell’impero si aggiunsero Publio Virgilio Marone (70-19 a.C.) e Lucio Giunio Moderato Columella (I sec. d.C.).
Come sottolinea quest’ultimo, il vino oltre che prodotto per la necessità famigliare come alimento, diventa un mezzo di scambio e un indubbio reddito sia per chi lo produce che per chi lo commercia. Con calcoli precisi e dettagliati, Columella sottolinea i vantaggi economici che può dare un vigneto «per chiunque sappia unire la scienza alla diligenza». Il guadagno che può dare un vigneto, secondo quanto afferma, è molto superiore a quanti sono aggrappati alla produzione di ortaggi.
L’agronomo, così potremmo chiamarlo ai giorni nostri, fa una distinzione fra le uve da vino e le uve da tavola, e nella sua classificazione divide le uve da vino in tre gruppi, a seconda del vino che si ottiene. Le più pregiate – Columella è un grande estimatore delle uve italiche – erano le Aminee, coltivate in Campania e in Sicilia, dalle quali si ottenevano i vini Amineo, Lucano e Murgentino. Nello stesso gruppo aveva posto le uve provenienti dall’Etruria, chiamate Apianae, perché attiravano le api, e le uve Eugeniae, coltivate sui Monti Albani, entrambe molto dolci.
Nel suo trattato, De re rustica, suggeriva per ogni vitigno il terreno più adatto, consigliava pure di impiantare varietà diverse sullo stesso terreno, e di tenerle separate per ottenere vini più pregiati.
La vendemmia partiva ad agosto e arrivava fino a novembre con la piena maturazione delle uve. Le uve venivano cernite e pigiate nel «calcatorium» e quindi torchiate nel «torcularium»; infine il mosto veniva messo nei «dolia». Il «mostum lixivium» era il mosto che, prima ancora della pigiatura, usciva a seguito della compressione delle uve le une sulle altre: mescolato al miele, era impiegato per produrre il dolcissimo «mulsum».
Columella a parte, nell’età di Augusto, si affermò nel campo letterario un mantovano figlio di proprietari terrieri. Aveva studiato retorica a Roma, dove aveva avuto come condiscepoli il futuro Cesare Ottaviano Augusto e Marco Antonio: stiamo parlando di Publio Virgilio Marone. Nella Roma di allora era molto popolare, possedeva una casa sull’Esquilino donatagli dall’imperatore, sebbene preferisse risiedere nello splendido e più tranquillo golfo di Napoli.
Il grande vate della poesia latina nutrì una particolare sensibilità nei confronti della natura (ai giorni nostri sarebbe di sicuro un leader nel movimento Verde): sensibilità che pur essendo già presente nelle sue Bucoliche, si esprime in modo compiuto nelle Georgiche. Nei quattro libri delle Georgiche parla della coltivazione dei campi, di coltura degli alberi, dell’allevamento del bestiame e dell’apicoltura. Ma quest’opera non è un vero e proprio manuale di agricoltura come invece è il De Re Rustica di Columella; Virgilio è un poeta non un agronomo.
Nel suo lavoro Virgilio canta i doni di Cerere e di Libero (Bacco), di Fauni e Driadi e dei numi agresti che proteggono i campi. Così l’aratro, i graticci di corbezzolo, i segnali della grandine, i venti, i terreni, i giorni propizi per i lavori nei campi diventano poesia. L’opera delle Georgiche inizia con l’intento di cantare Bacco e, attraverso di lui, i pampini autunnali e i vini che spumeggiano nei tini durante la vendemmia. Ammettiamo che leggendo Virgilio abbiamo avuto l’impressione che i versi componessero un’opera sì di un grande poeta ma, ad esser sinceri, anche che l’autore non fosse stato un grande intenditore e nemmeno un buon bevitore.
Il poeta invita il padre Leneo, uno dei tanti nomi di Bacco, a tingere con lui le gambe nude nel mosto nuovo. Con questa immagine introduce l’argomento, in tutto 160 versi, del libro delle Georgiche. Per quanto riguarda i vitigni, Virgilio accosta quelli italici ai celebri vitigni della Grecia. In poche parole spiega che i frutti della vite non sono gli stessi dappertutto, c’è uva e uva, c’è vino e vino, ma l’uva e i vini italici non sono secondi a nessuno: «Ci sono le uve di Taso, ci sono le uve di Marea, bianche, s’addicono queste a terreni grassi, quelle a terre più fini; e la psitia migliore per il passito e il Lageo leggero, che alla fine fa barcollare e impaccia la lingua, le uve purpuree e quelle precoci, e come ti potrò cantare o Retica? Però non sfidare le cantine del Falerno! Vi sono anche le viti Aminee, vini robustissimi, a cui cedono il passo quello di Timolo e persino il Faneo, re dei vini; e l’Argitide, quella più piccola, quella con cui nessun’altra può rivaleggiare o per quantità di succo o per durata di anni».
Virgilio continua dicendo che le specie e i nomi dei vitigni e dei vini sono così numerosi che non si possono citare tutti, né si può indicare il loro numero. Chi volesse conoscerlo dovrebbe sapere «Quanti grani della pianura libica si agitano allo Zefiroo, quando l’Euro si abbatte più furioso sulle flotte e sapere quante sono le ondate dello Jonio che arrivano sulle sponde».
Molto probabilmente con le Georgiche voleva rinnovare la letteratura del poeta greco Esiodo (le Opere) collegandosi alla tradizione latina della letteratura e poesia, composte di parti didascaliche (opere in prosa e in versi) con l’intenzione di celebrare Roma.
Per questo tra i suoi progetti vi era un poema che si sarebbe intitolato Res Romanae, e c’era pure l’intenzione di celebrare le imprese di Augusto. Queste idee, ampiamente discusse con Mecenate (Arezzo 69 circa a.C. – Roma 8 d.C.) munifico protettore di molti artisti, condussero alla realizzazione dell’Eneide. Pure in una sua parte l’Eneide contiene alcuni momenti dedicati al vino, in quest’opera che è la celebrazione virgiliana dell’epopea di Roma: partito dai desolanti lidi di Troia, Enea brinda con il vino alla realizzazione delle profezie «Ora libate a Giove con coppe, invocate pregando il padre Anchise, e ancor ponete sulle mense il vino».
L’Eneide è un’opera da leggere d’un fiato, soprattutto per gli amanti delle fiction; oltre che avvincervi, rinfrescherà i vostri ricordi scolastici. Virgilio dedicò dieci anni a quest’opera, ma la morte gli impedì di finirla: si spense a Brindisi nel 19 a.C.
Scelto per voi
Le Chicche rare
Coltivati tra i 430/600 m d’altitudine, i vigneti del Canton Neuchâtel (sesto cantone vinicolo), beneficiano della presenza del lago. Questo, infatti, funziona da tampone termico contro il calore estivo e i rigori dell’inverno. Essendo appoggiato ai contrafforti delle Alpi Jurassiane, il vigneto che copre quasi 600 ettari è anche protetto dalle piogge e dalle correnti umide che arrivano da ovest. La Caves des Coteaux si trovano tra i villaggi di Boudry e Cortaillod, i vigneti crescono su terreni formati da vecchie rocce ricche di calcare e molasse sabbiose.
La cantina produce una vasta gamma di vini, l’Oeil de Perdrix che oggi vi proponiamo è composto da solo «Pinot Nero» vinificato in rosato, dal piacevole colore che ricorda il rosa salmone, le sue note olfattive ricordano il melone, le pesche bianche e tra i fiori il geranio, morbido e fresco in bocca, è un vino elegante.
L’ Oeil de Perdrix è un vino da bere giovane e potrebbe accompagnare tutto un pasto, ma noi lo raccomandiamo con piatti un po’ esotici, provatelo con il pollo al curry.
/ Davide Comoli