Vino nella storia – Dai testi dell’umanista olandese emerge una passione non indifferente per il nettare di Bacco
Fu qualche anno fa che per caso, a Basilea, nel visitare l’antica cattedrale, ci trovammo di fronte alla pietra tombale sotto cui giacevano i resti mortali di Desiderius Erasmus Roterodamus, conosciuto come Erasmo di Rotterdam, umanista olandese (1466-1536).
Di lui conoscevamo la sua opera più nota, l’Elogio della Follia, satira della teologia scolastica, dell’immoralità del clero e della Curia. Dall’alto di un podio, la follia passa in rassegna tutti i vizi incarnati in varie categorie di persone, non risparmiando né re né papi. Confessiamo che fino ad allora non eravamo mai andati troppo a fondo, ma spinti dalla curiosità e dalla scoperta nella cattedrale, decidemmo di saperne di più su questo personaggio e colmare la lacuna, e non nascondiamo la piacevole sorpresa nello scoprire nelle sue opere il peso dato al nettare di Bacco.
Nel suo Diatriba del libero arbitrio (1524) scrive che l’uomo ispirato dalle sue meditazioni è in grado di modellare sé stesso, degenerare come un animale o essere una creatura degna di Dio. Ben lontano da una follia deleteria, nel momento in cui siamo in grado di padroneggiare il desiderio di smodate bevute, il vino potrebbe essere fonte di beneficio e piacere, ma anche di riflessione e insegnamento. E nell’Elogio della Follia, impreca contro gli ubriaconi che trovano il massimo del piacere nel bere, mentre nel La civiltà puerile si preoccupa d’illustrare ai giovani i pericoli derivanti dal vino e dalla birra.
Figlio di un medico di Gouda, Erasmo resta orfano di entrambi i genitori, vittime della peste. Ordinato sacerdote nel 1492, compì numerosi viaggi in Italia e in Europa, dove conobbe tra l’altro François Rabelais e forse il suo più grande amico Tommaso Moro (Thomas More) l’autore del celebre libro Utopia. La dottrina di Erasmo, tesa a una ricerca di una religione spirituale e antidogmatica, preoccupata più della vita morale che delle pubbliche manifestazioni, fu avversata sia da Martin Lutero, che trovò in Erasmo un moderatore della sua dottrina, sia dalla Chiesa cattolica, ma in compenso trovò anche degli estimatori, sebbene molti di più furono i suoi denigratori.
Torniamo però al tema che interessa a noi: «La birra di questo luogo – scrive Erasmo da Rotterdam ad André Ammonius – non mi piace per nulla e in quanto ai vini non mi soddisfano molto. Se tu potessi fare in modo che un otre di vino greco, il migliore possibile, mi fosse inviato qui, renderesti il tuo amico Erasmo molto felice; ma che sia un vino non troppo dolce! Non preoccuparti per il pagamento: i soldi ti saranno se tu vuoi anticipati. Sto morendo di sete, ti lascio immaginare».
Avendo ricevuto il vino, l’umanista di Rotterdam ringrazia l’amico: «Mi hai reso due volte felice mio caro André, aggiungendo al delizioso vino uno scritto ancora più delizioso, ho dunque due ragioni per ringraziarti… e a dire il vero, ti chiedo se tu puoi inviarmi un contenitore un po’ più grande in modo che mi duri un po’ di più». A quanto pare a Erasmo questo genere di vino piaceva molto, perché un mese più tardi riscrive al caro amico: «Ti rimando la botticella che è già vuota da un po’ di tempo, il profumo del vino greco di cui le assicelle sono intrise mi ha fatto gioire, accetta questi versetti in cambio dell’eccellente vino».
André Ammonius risiedeva nella capitale inglese quando Erasmo da Rotterdam, nel 1551, era professore di greco e teologia al Queens College di Londra; a quel tempo risalgono le lettere. Qui Erasmo era ospite di Tommaso Moro che, proprio in quel periodo e in quell’atmosfera festosa e un po’ strampalata, scrisse l’opera per cui ancora oggi è celebre. Ma quello che a noi interessa è il genere di vino di cui parla nella lettera all’amico.
Sappiamo che nel Cinquecento i vini dolci occupano un posto di primo piano nelle consuetudini conviviali. Grazie ad Andrea Bacci e al suo monumentale De naturali vinorum historia, il più pregiato dei vini provenienti dalla Grecia che fece la fortuna di Venezia era la Malvasia, la quale prende il nome da Monemvasia, porto di transito del Peloponneso meridionale, chiamato dal Bacci Passito Cretico perché originario dell’isola di Creta (Candia), città con la quale Venezia ha intensi rapporti commerciali.
Il Cretico veniva prodotto con uve fatte appassire sulla vite, oppure strappandone le foglie dopo aver attorcigliato il peduncolo o dopo aver disposto i grappoli su dei graticci cospargendoli di un sottile strato di gesso. E secondo il Bacci «Questi vini trasportati non soltanto in Italia e nelle Venezie, ma migliaia di botti trasportate in Gallia, in Germania e nelle più lontane località della Britannia, danno alla Repubblica Veneta un profitto mirabile a dirsi».
Di natura gracile, ossessionato dal suo corpusculum mingherlino pieno di dolori, soprattutto ai reni, Erasmo è molto attento al regime alimentare, alle volte di estrema indigenza, «Ho a malapena di che vivere» scrive (Epistola 123), trova nel vino le proprietà nutritive e salutari che con l’aggiunta (come era in uso in quell’epoca) di erbe medicinali, diventa un vero e proprio farmaco, efficace nel prevenire i piccoli disturbi, ma anche malattie più gravi. Nel malinconico carmen De senectute composto nell’attraversamento dello Spluga, afferma: «Il vino e le altre bevande alcoliche sono le migliori medicine e i più gradevoli pasti». All’epoca di questo scritto l’autore aveva poco più di 40 anni.
Nel 1514 Erasmo lascia l’Inghilterra e, accolto in modo deferente, raggiunge Basilea nell’estate del 1515. Tra i vortici della Riforma religiosa in atto, continua a viaggiare attraverso l’Europa con crescenti riconoscimenti per le sue opere da parte di sovrani e umanisti impegnati ad aprire la strada all’uomo libero e moderno. Di sicuro a Basilea avrà incontrato il dottore capo dell’ospedale della città nel 1526 Theophrastus Bombastus von Hohenheim, meglio conosciuto come Paracelso, medico, mago tormentato dall’occultismo, mente geniale, conoscitore senza eguali delle taverne di mezza Europa, con il quale avrà, immaginiamo, gareggiato in qualche giostra alcolica.
Nella notte tra l’11 e il 12 luglio del 1536, a 69 anni, Erasmo muore in seguito a dolorosa malattia, gotta, reumatismi, dissenteria. Secondo alcuni contemporanei, avrebbe lasciato questo mondo recitando giaculatorie, secondo altri «sine cruce, sine luce, sine Deo», dubbia la presenza di un sacerdote al capezzale.
/ Davide Comoli