Vino nella storia – Mentre la cultura cadde nel buio, il vino, e con esso la poesia, trovarono rifugio nei grandi monasteri
Con il crollo dell’Impero Romano sul mondo «civile», sembrarono sparire insieme le leggi e il diritto che Roma aveva saputo dare al mondo allora conosciuto, come anche la cultura e l’arte. Il vino, e con lui la poesia, trovarono invece una sorta di rifugio tra le mura dei grandi monasteri sparsi un po’ ovunque in Europa.
I nostri territori divennero terreno di guerra tra Ostrogoti e Bizantini fra il 534 e il 555. Dalla sconfitta dei Goti ne approfittarono i Longobardi che, dall’Est, dilagarono verso la pianura iniziando altre lotte contro i Bizantini. Con l’elezione di Autari nel 584, i Longobardi controllavano già gran parte della vicina Penisola.
Restando in tema di cultura e del baratro in cui era precipitata, possiamo anche farcene un’idea restando in tema vino. Se rammentiamo gli ampi trattati sulla vite e i suoi derivati che Plinio ha sviluppato nelle pagine della sua Naturalis Historia, di cui già ampiamente abbiamo scritto, la misura della decadenza di quei secoli la forniscono le poche righe che, sugli stessi argomenti, vengono scritte dal più famoso tuttologo del XI-XII sec., il vescovo Isidoro di Siviglia (560 circa-636): santo, dottore della Chiesa, il quale esercitò grande influsso sulla cultura occidentale per aver conservato e tramandato moltissime informazioni sulla civiltà classica. Nella sua opera, Originum sive etymologiarum libri XX, troviamo solo uno scarno capitolo (De Vitibus) nel libro XVII (De lapidibus et metallis): «Vitis dicta quod vim habeat citius radicandi» («la vite è così chiamata perché possiede la forza – vis – per radicare più in fretta»). Tre libri più avanti nel capitolo De Mensis scrive: «Vinum inde dictum quod eius potus venas sanguine cito repleat» («Il vino è così chiamato perché il berlo riempie in fretta le vene di sangue»).
Sempre nel XX libro, Isidoro riprende la discutibile (seppur profonda) saggezza dei Padri della Chiesa, e ci informa che San Girolamo, in un libro scritto sulla necessità di preservare la verginità afferma che: «Le fanciulle debbono fuggire il vino come fosse veleno affinché per il bruciore che si sentono addosso, non abbiano a berne e quindi a perdersi».
Se prendiamo in considerazione che anche al cospetto di questi ameni scritti, Isidoro di Siviglia veniva considerato la più grande mente del suo tempo, possiamo farci un’idea di cosa abbia significato per la cultura, il Medioevo, lungo e oscuro periodo di transizione tra due epoche di altissima civiltà.
Molti popoli, respinti come barbari dal mondo romano, entrarono a far parte del nuovo mondo romano-cristiano. Fra il VII e VIII secolo, i Longobardi si trasformarono da invasori a protagonisti integrati come narra Paolo Diacono, storico longobardo (727-799) nella sua Historia Langobardorum, scritta in latino, documento unico per la conoscenza di quel periodo.
Il processo di fusione fra invasori e popolazione locale passò anche attraverso i matrimoni misti, che portarono alla cristianizzazione di questo popolo, in origine di religione «ariana».
L’agricoltura, che nei secoli precedenti aveva subito un forte colpo, grazie al cristianesimo, ebbe un forte recupero. In effetti leggendo le cronache dell’epoca di Paolo Diacono, si nota come la diffusione delle comunità cristiane e la loro organizzazione ebbero ripercussioni notevoli sulla ricostituzione del paesaggio agrario.
Il vino, «pretiosa vina», citava specificamente l’autore di Historia Langobardorum, era amato e valorizzato, tant’è vero che era divenuto simbolo di ricchezza e regalità tra i nobili longobardi ed era una delle delizie italiche che attirava i popoli del nord, senza dimenticare che, con la diffusione del cristianesimo, la vite e il vino erano caricati di una valenza nuova. I re longobardi costruivano chiese e patrocinavano monasteri (uno per tutti quelli di Bobbio fondato nel 612) e i vescovi stessi provenivano da importanti famiglie longobarde, anche se molti dei nobili continuavano a seguire la dottrina ariana.
Nell’anno 637, la regina Gundeberga, figlia della più famosa Teodolinda, rimasta vedova, sceglie come sposo Rotari: «uomo di grande forza che seguiva la via della giustizia, sebbene privo della corretta fede, e si macchiasse dell’eresia ariana», così sta scritto nell’Historia Langobardorum. Il 22 novembre 643, il re Rotari promulga il suo celebre Editto: 383 articoli; più della metà codificano le norme del diritto penale. Si tratta di una raccolta di leggi germaniche, scritto in latino, che contemplava anche riferimenti all’agricoltura, compresi determinati comportamenti relativi alla vite e al vino, e le severe multe per i contravventori.
Mostrando una particolare attenzione alla coltura vitivinicola, l’Editto colpisce ogni danneggiamento all’impianto, ai ceppi di vite e ai tralci, come pure il furto delle uve: «Se qualcuno prende un palo da una vite, paghi una composizione di sei soldi. Se qualcuno scavando una fossa, distrugge intenzionalmente una pianta di vite, paghi una composizione di un soldo. Paghi una composizione di mezzo soldo, colui che intenzionalmente taglia un tralcio di vite. Se qualcuno, da una vigna altrui, coglie più di tre grappoli d’uva, paghi una composizione di sei soldi; ma se ne prende fino a tre, non gli sia fatta alcuna colpa».
Nel 772 fu eletto Adriano I che richiamò a Roma tutti i seguaci della fazione filofranca. L’alleanza fra il Papato e il Regno Franco provocò la fine del Regno Longobardo. I Franchi sconfissero a più riprese i Longobardi, e nel 774 Carlo Magno depose Desiderio, l’ultimo re longobardo e ne assunse la corona.
Il vino continuò ad essere la prova di diversi capitoli a esso dedicati nel Capitulare de Villis vel de Curtis Imperatoris voluto dallo stesso Carlo Magno.
Scelto per voi
Salmos Torres
Il vigneto del Priorato si estende a occidente della provincia di Terragona. Qui la famiglia Torres è riuscita a dare prestigio a una delle regioni viticole più importanti e produttive della Spagna, utilizzando le tecniche enologiche e produttive dei francesi. Così facendo i loro vini hanno acquisito un bouquet molto in sintonia con i vicini di frontiera.
Oggi abbiamo scelto per voi il Salmos, vino di corpo, prodotto con le tipiche uve locali, Cariñena, Garnacha e la francese Syrah.
Con il suo colore molto scuro come l’inchiostro di china, ricco di alcol, i suoi aromi ricordano la frutta secca e in modo particolare la prugna: vino corposo elevato per quattro anni in barrique di quercia francese, rende i suoi tannini ben presenti, ma delicati. Il Salmos regge molto bene l’invecchiamento. Adatto ad accompagnare piatti molto strutturati, noi l’abbiamo apprezzato con un «filetto di cervo al tartufo».
/ Davide Comoli