Vino nella storia – Molte le informazioni vitivinicole contenute nello storico Liber Ruralium Commodorum
La raccolta del Liber de Vindemiis è la riduzione dei Geoponica, collezione di venti libri compilata nel X secolo a Costantinopoli, che all’epoca si trovava sotto l’imperatore Porfirogenito Costantino VII. Questa collezione, originariamente scritta in greco, è in parte tratta dall’opera perduta di Cassiano Basso del VI secolo e in parte attribuita ad altri autori. Fu poi tradotta dal giureconsulto Burgundio da Pisa che, trovandosi nel 1172 a Costantinopoli, ebbe modo di tradurre diverse opere dal greco, tra le altre le tre che rivestirono grande importanza per il mondo vitivinicolo medievale, ovvero: il V, il VI e il VII libro dedicato alla coltivazione delle uve.
Al Liber de Vindemiis attinse ampiamente anche il bolognese Pier de’ Crescenzi (nasce verso il 1233) per il suo Liber Ruralium Commodorum (Libro dei benefici agricoli), arricchendolo però di numerose osservazioni e molti consigli personali che gli derivano dalle esperienze maturate nel suo peregrinare come «magistrato» per tutta Italia.
In quel periodo storico, i liberi Comuni italiani erano retti da Capitani del Popolo o da Podestà ai quali veniva affidata la gestione della giustizia e l’amministrazione civile e militare. Questi uomini di comprovata onestà si avvalevano della collaborazione di esperti magistrati, gruppo del quale faceva parte Pier De’ Crescenzi.
Lo troviamo nel 1269 a Senigallia, nel 1271 ad Asti, più tardi a Ferrara, Pisa, Brescia e allo scadere del secolo rientra nella nativa Bologna, dove si ritira a vita privata nella sua tenuta di Rubizzano alle porte di Bologna, dove tra il 1304-1309 scrive, grazie alla sua esperienza nella gestione dei suoi possedimenti, il De Agricoltura: 12 libri che comporranno il Liber Ruralium Commodorum. Oltre al già citato Burgundio da Pisa, altre sue fonti furono: Plinio, Columella, Catone, Varrone, Palladio e Alberto Magno dell’ordine domenicano; per compilare il capitolo dedicato alle virtù della pianta di vite, si avvale delle conoscenze di Dioscoride, Galeno, e Isaac Israeli (855-955), un autore poco conosciuto alle nostre latitudini, ma importante per poter capire gli effetti psicologici del vino nell’Occidente medievale.
Dopo essere passata al vaglio dell’«Imprimatur» ecclesiastico (a quel tempo scardinare dogmi antichi, credo significava porsi in conflitto con la Chiesa, vedi tre secoli più tardi Galileo Galilei), l’opera suscitò subito un vasto interesse ed ebbe una grandissima diffusione «in folio». È soprattutto nel IV tomo che De’ Crescenzi si sofferma su norme di viticoltura (De vitibus et vincis et cultu carum, ac natura et utilitate fructus ipsarum).
Nell’opera, l’autore precisa subito che l’habitat prediletto dalla vite è caratterizzato da una temperatura calda, perché ivi al contrario di quelli freddi dà prodotti migliori, a condizione però che il luogo di coltura sia asciutto (IV, 5fol).
I terreni da evitare (sono da privilegiare quelli vergini o che non siano mai stati coltivati a vite) devono essere duri in modo che trattenendo l’umidità, possano mitigare l’aridità estiva. Buone le terre argillose a patto che non siano composte esclusivamente dall’argilla (IV, 6fol).
De’ Crescenzi introduce l’utilizzo delle talee (un argomento ancora attuale) e raccomanda che siano colte in ottobre, mese in cui il «calore» solare è ancora nei rami, prima di ritirarsi con l’irrigidirsi della stagione, nelle radici: i tralci da tagliare debbono essere scelti dalla parte mezzana della pianta, perché sono i più fecondi. Prosegue poi entrando in merito agli scassi del terreno, indugiando su importanti nozioni tecniche, quali profondità e distanza tra le fosse (IV, 7fol). Importanti pure le indicazioni che vengono date sull’utilizzo delle «talee» e di vivaismo per quanto riguarda le «barbatelle». Una volta poste a dimora in terreno grasso mescolato a letame (metodo usato ancora sino a cinquant’anni or sono), vengono posizionate nel vigneto.
Sulla base di una millenaria consuetudine, le viti erano piantate a stretto contatto con altre piante, talvolta alberi da frutto, in modo che queste ultime facessero da sostegno.
Tra i sostegni vivi, l’autore consiglia l’olmo, considerato il migliore, a questo fanno seguito: acero, salice, pioppo, frassino, ciliegio, susino e simili; consiglia inoltre alcuni metodi di legatura, ricordando però di usare il salice e il pioppo solo in terreni umidi.
Nel V «folio» intitolato De vitibus et vineis et cultu earum, sono trattate le virtù terapeutiche dell’uva e delle viti.
De’ Crescenzi scrive tra l’altro che «Le foglie della vite sono molto medicamentose, perché puliscono le piaghe e le guariscono dopo averle cotte nell’acqua. Esse rinfrescano il calore dato dalle febbri e come per incanto fanno cessare i dolori di stomaco; esse aiutano pure le donne incinta; e fortificano il cervello».
Divide pure i vitigni in bianchi e neri, classificando le uve in base alla «bontà», la quale viene espressa con diversi aggettivi, sottile, chiaro, potente, serbevole, dolce, che ci danno la misura dei criteri d’apprezzamento in epoca medievale.
Appoggiandosi all’autorità di Isaac, conclude confermando che il vino «dà buon nutrimento e rende la sanità al corpo: e se si prende come si deve e quando bisogna, e quanto può sostenere la natura, conforta la virtù digestiva, così nello stomaco come nel fegato: perché è impossibile che si attui il processo della digestione senza il calore che conforta la virtù naturale e accresce la forza».
All’inizio del Trecento, il nome del vino derivava solitamente dall’uva con la quale era prodotto. Quest’opera – ristampata più volte con ripetute difficoltà interpretative, talvolta insormontabili – riveste una particolare importanza come documento che presenta una panoramica interessante delle varietà di uva coltivate a cavallo tra il XIII e il XIV secolo nel nord e centro Italia.
Quasi impossibile risulta però ai nostri giorni riconoscere tutti i 41 vitigni elencati dall’agronomo bolognese nel suo peregrinare lungo la penisola, perché nell’arco di sette secoli, molti sono stati i mutamenti che hanno interessato la struttura ampelografica italiana. D’altronde lo stesso De’ Crescenzi riconosce la difficoltà e il rischio a causa di sinonimie nel distinguere i vari vitigni: «multe diversis nominibus in diversis provinciis et civitatibus appellatur» («è chiamato con molti nomi diversi in diverse province e stati»).
Di alcuni vitigni (una ventina), l’autore presenta una buona scheda tecnica, soprattutto per i bianchi, come la Schiava (Sclava), Albinaza (che noi pensiamo sia il Pigato) o il Trebbiano, ma ecco la lista dei vitigni elencati nell’opera: Schiava (Sclava), Trebbiano (Tribiana), Gragnolata, Malixia o Sarcula, Garganeca, Albinazza, Buranese (Buranexae), Africogna, Lividella, Verdiga, Verdecia, Moscato, Luglienga, Greca, Vernaccia, Berbigenes, Cocerina, Groposa, Fuxolana, Bansa, tra le bianche. Tra le uve nere: Grilla, Zisiga, Margigrana, Nubiola (Nebbiolo?), Maiolo, Duracla, Gimnaremo (Gunarone), Paternica, Pignuolo, Albatichi (Albarica), Vaiano, Dentina (Clentina), Portina (Porcina), Valminica, Tusca Melegono, Canatuli (Canaiolo), Canopum, uve silvestri chiamate Lambrusche e Pergole (Brumeste).
A De’ Crescenzi bisogna comunque dare atto di aver dato il via, a partire dal XVI secolo, alla trasmissione scritta di conoscenze enologiche e viticole.
/ Davide Comoli