Curiosità Archivi - Pagina 7 di 13 - Vinarte
  • Enotria, «terra del vino»

    Bacco Giramondo – La viticoltura in Calabria vanta sistemi di coltivazione molteplici, segno di un comparto viticolo in forte evoluzione

    Per la sua particolare collocazione geografica, la Calabria è circondata dal mare per gran parte del perimetro: il Mar Tirreno e lo Ionio ne bagnano le coste, che salgono rapidamente in altitudine e plasmano un territorio in gran parte collinoso e montuoso. Il massiccio del Pollino, situato in prevalenza in Basilicata, giunge fino in territorio calabrese, che annovera anche l’Aspromonte, l’Altopiano della Sila e la Catena Costiera.

    Il vigneto calabrese si estende per circa 11’500 ettari, dove i vitigni a bacca nera rappresentano circa il 75% della produzione. Sotto l’aspetto ampelografico la viticoltura della Calabria si presenta estremamente ricca di varietà locali e tradizionali: questo patrimonio, considerato spesso una risorsa secondaria, oggi è oggetto di attenzioni da parte dei produttori, spesso realtà di piccola e media estensione viticola.

    Il clima calabrese è molto diverso tra i versanti ionico e quello tirrenico; si passa velocemente scendendo verso le coste, dal clima continentale con le sue importanti escursioni termiche, a un clima mediterraneo, dove lo scirocco e la tramontana spirano tra secolari alberi di ulivo, cedro e bergamotto, che crescono in mezzo a vestigia millenarie.

    La collina e la pianura asciutta sono il palcoscenico ideale per la viticoltura, qui i terreni vanno dal medio impasto e tendenzialmente sciolto al tipo calcareo/argilloso, presente soprattutto nelle aree collinari della zona ionica.

    In generale prevalgono varietà a frutto nero,: questo si traduce in una predominanza di produzione dei vini rossi sui bianchi. Il vitigno principe è il Gaglioppo, seguito dal Magliocco, la Marsigliana Nera, il Nerello Mascalese, la Prunesta, il Sangiovese e l’Alicante, oltre ai soliti Merlot, Syrah e Cabernet. In numero minore sono le curiosità bianche, il Greco di Bianco, il Montonico, il Guardavalle e il Pecorello Bianco, con interferenze esterne come il Sauvignon e lo Chardonnay. Anche i sistemi di allevamento sono molteplici, segno di un comparto viticolo in forte evoluzione: non troviamo più quindi il solo sistema ad alberello basso.

    Abitata anticamente da genti di stirpe ligure-iberica, la Calabria fu successivamente sede di una fiorente civiltà originata dalla migrazione greca che vi si diresse a partire dal VIII sec. a.C. Il principe arcade Enòtro fu il fondatore (secondo Pausania) di Enotria, la prima colonia greca sulla sponda italiana dello Ionio. In seguito a questi avvenimenti, i Greci chiamarono la penisola italiana con il nome di Enotria «terra di vino». Difatti nella mitologia greca le Oinotrope (dal greco Oinótropoi), erano tre sorelle, Spermo «seme», Oino «vino» e Elais «ulivo», cui Dioniso aveva dato il potere di trasformare l’acqua in vino.

    I vini calabresi vantano dunque un illustre passato. Il Cirò, i vini di Crotone e quelli di Capo Rizzuto, giunsero al massimo della celebrità quando vennero offerti come dono a coloro che si erano distinti nelle competizioni dei giochi di Olimpia. I ricchi ateniesi, oltre al già citato Cirò, prediligevano molto i vini della terra calabra che all’epoca prendevano il nome dei luoghi in cui erano prodotti come il Sibaris, il Cosentia, il Regium e il Tempsa.

    Oscurati dai vini laziali e campani, i vini calabri ebbero un rinnovato periodo fortunato fra il Medioevo e il tardo Rinascimento. Essendo di alta gradazione grazie al clima e resistenti ai viaggi, venivano imbarcati a Tropea e inviati a Livorno, Genova, Barcellona, Valencia, ma soprattutto nei porti del nord Europa, come Londra e Bruges, dove deliziavano le mense dei nobili e ricchi mercanti.

    Complessi fattori storici e geografici hanno poi ostacolato in passato l’armonico sviluppo della vitivinicoltura calabrese. Da fanalino di coda qual era una ventina di anni or sono, però, oggi la vitivinicoltura di questa regione, grazie agli studi illuminati sul patrimonio ampelografico locale di alcuni produttori, ha cambiato volto ai vitigni della tradizione vinificati in purezza, assistiamo all’impiego di vitigni internazionali che, usati insieme alle uve locali, danno vini molto accattivanti, da bere con la cucina prevalente di terra, insaporita dalla dolce cipolla rossa di Tropea e dalla piccantezza del peperoncino.

    Appena lasciata la Basilicata scendendo lo stivale e oltrepassato il Massiccio del Pollino, troviamo la zona di produzione più estesa della Calabria: siamo nel Cosentino, dove la viticoltura ha in parte recuperato le fasce collinari. La D.O.C. Terre di Cosenza, raggruppa sette sottozone: qui ultimamente è stato rivalutato un vecchio vitigno locale, il Magliocco; generalmente vinificato in purezza, regala vini dal grande potenziale evolutivo, grazie al suo corpo, morbidezza e tannicità, ottimo con un filetto di manzo scottato con cipolle rosse caramellate.

    In questa zona troviamo pure nella Valle dell’Esaro e sulle colline di Crati, vini rossi leggeri e rosati, ma anche freschi e profumati vini bianchi, prodotti con il Greco di Bianco e la Guarnaccia, da bere giovani.

    Lungo il corso del Savuto confine naturale tra le province di Cosenza e Lamezia, l’Arvino (così viene chiamato il Magliocco dolce), affiancato dal Gaglioppo e il Greco Nero, regala vini dal colore rubino intenso, con sfumature viola che al naso ricordano arbusti mediterranei ed erbe aromatiche, ideale per arrosti importanti e formaggi stagionati.

    E prima di lasciare le terre Cosentine, fate un salto nel villaggio di Saracena, dove con il Moscatello appassito e mosto ridotto di Guarnaccia e Malvasia, vi sarà possibile leccarvi i baffi con il poco celebre Passito, da abbinare alla locale torta di noci.

    In provincia di Crotone sul versante ionico della regione, entriamo nel regno del Gaglioppo (l’antico Kremisi). Le rese più basse e le nuove tecnologie hanno fatto dei vini di Cirò un prodotto più facile da bere. Ottimi i rossi se abbinati allo spezzatino con patate e piselli; da non sottovalutare anche i rosati prodotti dallo stesso vitigno, da bere con pomodori, zucchine, melanzane ripiene.

    In provincia di Reggio Calabria, nella D.O.C. Bivongi, i «blend» ottenuti da uve locali come la Nocera e il Greco Nero con vitigni internazionali, donano vini che danno il meglio dopo qualche anno d’affinamento. È comunque la Locride la terra dei vini rari: dai declivi dell’Aspromonte che scendono verso lo Ionio, troviamo il vitigno Montonico, che ci regala vini dolci. Ma è il Greco Bianco di Bianco, che sa dare un vino dolce quasi introvabile. I pochi grappoli appassiscono al sole e regalano vini amabili dal profumo di zagara, bergamotto, albicocca e miele. Grande vino per la frutta secca e dolcetti di mandorla e fichi, vera gemma (antica) dell’enologia.

    Molina
    È soprattutto grazie al favonio, che i vini prodotti nella Bündner Rheintal raggiungono un livello qualitativo molto alto, come ad esempio il vino che oggi vi proponiamo: il Molina, prodotto dalla storica cantina Cottinelli a Malans (Grigioni).
    Questo è un vino particolare, ottenuto da uve che crescono in luoghi privilegiati, vendemmiate con una vendemmia tardiva e fermentate separatamente. I nuovi vitigni di Cabernet Cubin, Cabernet Dorio, Cabernet Dorsa, Diolinoir, Gamaret, Merlot, Regent e Zweigelt, saranno elevate in barriques (in parte nuove) per 15 mesi.
    Questo assemblaggio, di cui la «maison» è particolarmente fiera, si presenta con un colore rubino intenso; frutti rossi come ribes, mirtilli, more, con un sottofondo di spezie, portano al naso profumi del bosco, caldo, dai tannini morbidi. Il Molina è un vino molto equilibrato e armonico, il finale è lungo e chiude con potenza un’avvolgente nota fruttata. Lo consigliamo vivamente con i piatti stagionali di cacciagione.

     

    /Davide Comoli

  • Dioniso e il suo «doveroso» mandato

    Vino nella storia – Nelle vicende e nella mitologia dell’epoca classica il nettare di Bacco ricopre un ruolo assolutamente importante

    Dioniso nacque da una capricciosa relazione di Zeus, il padre degli dei, con Semele, una principessa di Tebe. Il suo concepimento provocò una furibonda gelosia da parte di Era, la moglie di Zeus, che ordì un crudele disegno per sopprimere la madre e il nascituro. Ma Zeus salvò Dioniso, cucendolo nella propria coscia, naturale incubatrice fino al momento della nascita.

    Alla sua nascita, Dioniso fu affidato alle Ninfe della montagna di Nisa e da queste allevato in una grotta, dove lussureggianti piante di vite facevano da tappezzeria. Crebbe in assoluta libertà, tra canti e musica, girando libero tra i boschi, in perfetta assonanza con la natura, seguito ovunque da due tigri da lui ammansite, simili a due gattini. Un giorno per caso, dopo aver spremuto dei grappoli che pendevano nella grotta, versò il succo in una coppa d’oro e ne bevve a lungo.

    Ben presto fu preso da una certa svagatezza e desideroso di condividere l’imprevista sensazione di giocondità ne offrì a satiri e ninfe, pervasi da una invasata vitalità. Dioniso sperimentò così il potere inebriante della bevanda e il potere generativo dell’allegria e dell’oblio. È a questo punto che esce la componente divina della sua personalità: egli non doveva e non poteva essere un edonista individualista; doveva al contrario dimostrarsi solidale con gli uomini e insegnare loro come vivere felici.

    Dioniso allora si veste da «missionario», scanzonato e perfino dissacrante, accompagnato dal «centauro», Sileno, che porta in mano una coppa sempre piena e sempre vuota, per insegnare agli uomini la coltivazione della vite e l’uso del vino attraversa varie regioni, Siria, Egitto, India. Il messaggio di Dioniso era semplice e allettante: trasgressione, rimozione dell’angoscia esistenziale, voglia di vivere. I suoi precetti trovarono, è vero, una benevola accoglienza in larghi strati della società civile, ma incontrarono anche l’ostilità dei «potenti», per quel disordine e turbamento che essi generavano. Per questi motivi la sua missione non fu cosa facile; furono infatti molti ad impedire il consumo del vino che veniva considerato un pericolo per la stabilità sociale e politica.

    Il re di Tracia, Licurgo, utilizzò l’esercito per far prigioniere le «baccanti», e i «satiri», ma Dioniso adirato lo punì rendendolo cieco; Perseo, re di Tebe, molto preoccupato per le orge notturne che specialmente le «Menadi», (le donne seguaci di Dioniso) facevano sui monti, ne volle impedire il culto, ma venne ucciso dalla madre seguace del dio. Fu appunto per tali gesta che egli meritò di ascendere all’Olimpo e di sedere tra gli dei.

    Divenuto a tutti gli effetti «dio», poté concedersi qualche licenza, ebbe una relazione con Afrodite, da cui nacque Priapo, simbolo dell’esuberanza sessuale e protettore dell’orto e della vigna. Ma se un figlio integra e perfeziona la figura paterna, ecco che Priapo, ovvero i piaceri del sesso, integra a perfezione Dioniso, ovvero i piaceri dell’ebbrezza da vino.

    E gli uomini quale divinità «più amica» potevano avere in sorte? È giusto quindi che essi abbiano tributato a Dioniso sin dalla notte dei tempi onori degni di un siffatto dio, ebbro e folle. Celebrare il dio significò innanzitutto «trasgredire». Questo era infatti ciò che accendeva nei riti dionisiaci, dove il «menadismo», vera celebrazione della follia e dell’irrazionalità, faceva la parte del leone. La festa dionisiaca, infatti, rappresentava l’occasione per scardinare tutte le regole che tengono insieme gli individui in una società, era instaurare l’uguaglianza tra ricchi e poveri e tra i sessi diversi.

    A partire dal VI sec. a.C., il culto e la stessa immagine di Dioniso, subisce una trasformazione che le fanno perdere l’aspetto primitivo e la rendono più adatta ad una società più raffinata di quel tempo, molto ben descritta nelle opere del poeta tragico greco Euripide (480-406 a.C.).

    Certo è che Dioniso nella società greca tra il VI-V sec. a.C., si presenta con vesti più decorose, un dio dell’eccesso e della follia collettiva, un dio in grado di sconvolgere le menti, appare senz’altro riprovevole, meglio indossare quindi vesti più borghesi.

    La società bene dell’epoca, dovendo comunque onorare quel grande amico dell’umanità (senza voler rinunciare al vino), per prima cosa riformò i riti dionisiaci, che diventarono semplici rappresentazioni mimiche e canore a futuro ricordo di quello che essi erano stati originariamente e poi si diedero delle norme per usare «correttamente», il vino: non bisognava bere vino novello; il vino maturo doveva essere miscelato con l’acqua, bere vino schietto era considerato un costume barbaro, bisognava evitare di ubriacarsi.

    A Sparta si costringevano i prigionieri Iloti a bere sino ad ubriacarsi e a mostrarsi in quello stato ai giovani spartani che imparavano a disprezzare il vino puro. Così regolato, il vino fece il suo ingresso nei salotti degli intellettuali della Grecia antica, come animatore delle serate che si trascorrevano in compagnia in casa di amici,: nasceva il «Simposio». Sì perché il Simposio nella sua forma «istituzionale», era anche una forma di intrattenimento, diciamo per gente di cultura superiore, gente che sapeva bene che il «piacere», non può dirsi completo, se non provocato dalla giusta combinazione equilibrata di tutti i sensi. Ma del «Simposio», ne parleremo prossimamente.

    Friulano 2017
    Il Friulano è il vino più amato dalla gente del Friuli, con il nome di Tocai è sempre stato il vino del popolo che all’osteria era solito ordinare un «taj di Tocai». Recentemente identificato con il francese Sauvignasse, è un vitigno molto versatile e spesso viene usato in uvaggi ai quali aumenta la struttura. Il Collio è una bella area di colline tappezzate di vigne e frutteti che si estende ad ovest di Gorizia lungo il confine con la Slovenia.
    Il Friuliano che oggi presentiamo è prodotto da Franco Blazic nella sua Azienda Agricola in località Zegla, lungo la strada del vino e delle ciliegie a Cormons, nel Collio intermedio, dove i pendii protetti dalle Prealpi Giulie e la vicinanza del mare, creano le ideali condizioni per elaborare ottimi vini bianchi.
    Dal colore giallo paglierino con riflessi verdolini, al primo impatto olfattivo è leggermente pungente nei richiami all’erbaceo a cui subito subentrano sentori di albicocca e mango. Al palato ritornano con evidenza le note vegetali e fruttate, ma quello che ci colpisce è la freschezza e sapidità anche in fase retrogustativa. È l’ottimo compagno per il classico prosciutto e melone, noi ve lo consigliamo con dei tagliolini agli scampi.

    / Davide Comoli

  • Nella terra del Cannonau

    Vino nella storia – La Sardegna per estensione è la seconda isola del Mediterraneo, divisa dalla Corsica dalle Bocche di Bonifacio

    Circondata da 1800 km di coste, la Sardegna ha potuto conservare fino a oggi gran parte del suo patrimonio viticolo. Il vento non manca mai, e in questa splendida isola anche in piena estate, violente raffiche rendono problematiche se non impossibili un piacevole pomeriggio in spiaggia o una gita in barca. Maestrale e Scirocco nel bene e nel male, contribuiscono in ogni caso a dare particolare sapidità ai vini ottenuti nelle zone più esposte della costa. Tranne il Gennargentu (1834 m) l’isola non ha montagne molto alte, ma predominano altopiani rocciosi, prodotti dall’erosione delle rocce che risalgono a 300 milioni di anni fa, composte da granito, basalto, scisto e trachite. I vigneti sono spesso impiantati su terreni poco profondi, ma di limitata fertilità. In compenso i vini prodotti godono di un’ottima mineralità; la superficie vitata è di ca. 27’000 ettari.

    La coltura della vite risale probabilmente al VIII sec. a.C., quando un gruppo di Fenici (Cartaginesi), si insediò nelle zone costiere dove fondò tra l’altro «Coralis» (Cagliari), ma presso un nuraghe a Borore (NU), sono stati trovati semi di vite datati 1300 anni a.C. Questi ritrovamenti confermano quello che in caratteri cuneiformi è scritto su una tavoletta proveniente da Ugarit (antica città siriana) relativa al XIII sec. a.C., dove viene citato un soldato Shardana (antica popolazione della Sardegna) della guardia reale, che oltre a campi e saline, possedeva anche un vigneto. Anche Roma fu presente sull’isola, impiantando «villae rusticae» provviste di colline vinarie. Per ritrovare notizie sul vino, bisogna però aspettare la famosa «giudicessa» Eleonora d’Arborea, autrice della Carta de Logu (1392), raccolta di leggi estese a tutta l’isola da Alfonso d’Aragona detto il «Magnanimo».

    Malgrado l’isolamento e il persistere di strutture arcaiche, la coltura dell’uva che gli isolani ponevano sotto la protezione di «Sardus Pater», continuò a prosperare anche dopo Eleonora d’Arborea, tant’è che il Bacci (1576) nel suo trattato sui vini d’Italia, definì la grande isola: «Sardinia insula vini».

    Dopo molte traversie tra cui la filossera, la vitivinicoltura sarda, alla fine degli anni 50, era segnata da un marcato dualismo tra le province di Sassari e Nuoro da un lato e il sud dell’isola dall’altro.

    Nelle prime in terreni collinari, dominava ancora (ad eccezione delle importanti tenute di Sella & Mosca, vera locomotiva trainante della resurrezione vitivinicola sarda), il tradizionale allevamento ad alberello; al sud si concentravano le aziende contadine del settore, in cui cominciava a diffondersi il sistema a spalliera.

    Tra il 1960 e il 1980, grazie a sovvenzioni della regione, ci fu un’espansione incontrollata del settore che portò ad una politica di espianto, alla quale seguì una vendita dei vigneti a produttori che arrivavano dal «continente» soprattutto toscani e veneti.

    Il sostanziale miglioramento dei livelli quantitativi dal 2007 ha portato alla produzione di vini che hanno ottenuto importanti riconoscimenti. Oggi al 30% dei vini è riconosciuto il marchio D.O.C. e al Vermentino di Gallura è stata attribuita la D.O.C.G.

    Dalla fine degli anni 80 è iniziata in modo molto positivo la valorizzazione dei vini sardi, che hanno permesso ai prodotti dell’isola di confrontarsi in modo positivo con i vini italiani e mondiali.

    Il settore turistico è stato senza dubbio il principale trascinatore per l’evoluzione del vino, in modo particolare i «bianchi». Oggi si producono vini freschi, profumati e soprattutto piacevoli da bere: ormai è solo un ricordo quello che ci torna in mente dei bianchi ossidati e piatti degli anni 70, che arrivavano alle nostre latitudini dopo essere stati per giorni sotto il sole, sulle banchine dei porti d’imbarco.

    Dal 2006 la Regione Sardegna ha istituito cinque «strade del vino»: tra Barbagia e Ogliastra per il Cannonau, il Campidano per il Nuragus, il Sulcis per il Carignano, la Planargia e Oristano per la Malvasia e la Vernaccia e la Gallura per il Vermentino.

    Per meglio gustare queste tipologie, bisogna viaggiare e farsi stregare dalla selvaggia bellezza di questa terra: bere la Malvasia a Bosa, ammirando il castello dei Malaspina da un ristorante sul fiume Temo, la Vernaccia ad Oristano tra i monti del Marghine e il fiume Tirso, alla ricerca di antichi vitigni, il Cannonau a Sorso, lo spumeggiante Moscato a Tempio Pausania, il Torbato sul lungomare di Alghero, il Monica nel Campidano di Cagliari.

    Il modo migliore per poter valutare queste gemme dell’enologia è quella di «maritarli» con le perle della gastronomia locale.

    Tra i vitigni a bacca bianca il Vermentino è il più coltivato: sembra che provenga dalla Corsica, ma è originario della penisola iberica. Il Vermentino di Gallura, è l’unica D.O.C.G. in Sardegna, ottenuta nel 1996. È un’eccellente aperitivo ed è l’ideale con «l’aragosta e crostacei grigliati». Molto diffuso nel sud dell’isola è il Nuragus, considerato il più antico vitigno della Sardegna, molto probabilmente introdotto dai Fenici. I suoi piacevoli profumi di pesca, sposano in modo ottimale gli antipasti e gli spaghetti con la bottarga.

    Con il Torbato, introdotto dagli Spagnoli, si producono ad Alghero degli ottimi spumanti metodo Martinotti, ma anche per vini fermi dalle note floreali, ottimo con le «impanadas».

    L’antico Nasco di Cagliari, vinificato in dolce, secco e passito, da provare con le «seadas», l’autoctono Semidano d’abbinare alla «fregula», piatto di antiche tradizioni, la Vernaccia, forse introdotta dai Greci che fondarono l’antica Tharros, coltivata nei terreni alluvionali in quel di Oristano, la consigliamo a fine pasto con il «pecorino sardo» o in versione Spumante con i tipici «prosciutti sardi».

    Il Moscato con la tipica pasticceria secca a base di mandorle, «gli amarettos», la Malvasia introdotta dai monaci Bizantini, la troviamo in due diversi biotipi, a Cagliari e a Bosa, che danno vini diversi da dessert, in entrambe percepiamo dolcissime note di agrumi canditi, fichi, datteri secchi e vellutati in bocca, da bere anche fuori pasto.

    Le uve a bacca nera occupano il 65% del vigneto sardo: il Monica nel centro/sud dell’isola, il Girò con il quale si produce un vino liquoroso, il Bovale che dà vini molto colorati, il Nieddera con il quale si producono rosati profumati, il Muristellu, il Cagnulari, il Carignano. La cucina sarda di carne, ricca di specialità di selvaggina, maiale, agnelli, trova nei «rossi» di questa terra compagni di tavola ideali, tra tutti primeggia il Cannonau, il più coltivato in Sardegna. Lo spazio non ci permette di scrivere di più di questo vino, ma il consiglio è di abbinarlo al classico «porceddu furria furria».

    Campocroce Amarone 2015
    Con le uve Corvina Veronese, Rondinella, Molinara ed eventuali altri vitigni autorizzati a bacca rossa, rigorosamente selezionate e lasciate appassire sulle «arele» per 3-4 mesi, si ottiene l’Amarone. Un vino che pare sia nato per caso da alcune botti dimenticate in cantina per produrre il dolce Recioto: la prima etichetta di Amarone è datata 1950, da allora questa tipologia di vino ne ha fatta di strada. Oggi il nome Amarone è conosciuto a livello mondiale ed è considerato alla stregua dei vini più prestigiosi.
    Il Campocroce che oggi vi proponiamo con i suoi 16,5% di alcol, ha una grossa potenza strutturale, è un ampio concentrato di frutta, ciliegie marasche, mirtilli ed è talmente di colore scuro che è quasi impenetrabile alla vista, equilibrio e complessità sfiorano i vertici dell’eccellenza. Lunga la sua permanenza in bocca, dove note di frutta secca e nera ci avvolgono il palato, lasciando un piacevole ricordo di amarene. Lo consigliamo con piatti di cacciagione di pelo e formaggi erborinati stagionati, facendo attenzione che l’impatto gustativo sia equivalente alla struttura del vino.

     

    /Davide Comoli

  • Antichi riferimenti sul vino

    Vino nella storia – Molte le iscrizioni all’interno delle piramidi che fanno riferimento al nettare di uva, ma anche a quello di datteri e di melagrana

    È attingendo ai nostri scatti fotografici e memorie – che abbiamo raccolto, e continuiamo a raccogliere – che entriamo in punta di piedi nello spirito delle attività agricole degli Antichi. Ed è grazie al rileggere copie di remoti papiri o incisioni geografiche, o all’immergersi nella lettura di pagine di autori greci o latini, che ci sembra quasi, soprattutto nei silenzi notturni, di entrare in un mondo bucolico; nei loro campi, nelle loro vigne. Ci sembra quasi di essere presenti nella loro economia famigliare.

    Le Lodi alla vita rustica di Albio Tibullo (69-19 ca. a.C.) è il libro che, lo confessiamo, sta da sempre sul nostro comodino, perché alle volte ci è di conforto dopo giornate faticose e notti in cui si fa fatica a prender sonno.

    Erodoto di Alicarnasso (V sec. a.C.) considerato dagli antichi il «padre della storia», chiamò l’Egitto «dono del Nilo». L’agricoltura fu la principale e grandiosa risorsa di questo Paese. Grazie al sopraccitato Erodoto, i Greci furono i primi a descrivere con dovizia di particolari l’Egitto.

    Un geroglifico attinente alla Prima Dinastia, verso il 3000 a.C., indica il termine «vite», mentre il termine «irp» che indica vino, incomincia ad apparire solo nei testi della Seconda Dinastia, 2700 a.C. circa. È dalla Quinta Dinastia – 2400 a.C. – che all’interno delle piramidi vengono scolpiti dei testi religiosi usati nei riti funebri regali, i cosiddetti «Testi delle Piramidi». In questi testi notiamo una chiara sacralità nei confronti del vino. Ma le piramidi rappresentano per noi altre fonti d’informazione. Sui loro muri antichissimi troviamo infatti rappresentate operazioni relative alla produzione del vino, scene di vendemmia, trasporto dell’uva, pigiatura, torchiatura e travaso del mosto nelle giare.

    Su alcuni papiri si trovano riferimenti a diversi tipi di bevande. Al fianco della birra e del vino che erano le bevande tradizionali, troviamo citati vino di melagrana, vino di datteri, e mosto dolce non fermentato. Abbiamo pure trovato interessanti i riferimenti allo «shedek», bevanda che viene descritta come molto inebriante, particolarmente apprezzata dai giovani.

    Molto frequenti sono pure le citazioni di una bevanda ottenuta lasciando fermentare il lattice colato dall’incisione del tronco delle palme di dattero e chiamato vino di palma.

    Era di fatto il vino dolce più apprezzato, e se ne trova traccia sul papiro in onore della città di Tanis nel Delta – luogo che Ramses II (1289-1224 a.C,) aveva riscostruito e rinnovato, facendone la sua capitale –; su questo papiro si può infatti leggere quanto segue: «Son giunto a Tanis e l’ho trovata in condizioni molto buone… / i suoi granai sono pieni di orzo e grano: / melagrane, olive, mele e fichi del frutteto. / Vino dolce di Ka-en-Kemet che vince il miele».

    Le iscrizioni sulle anfore ritrovate nella tomba del faraone Ramses II (1200 a.C. circa), ci rivelano ben trentaquattro denominazioni geografiche di diverse località dove veniva prodotto il vino; centri importanti per la produzione erano l’oasi di Kharga, il Fayyum e la Tebaide con la città di Copto.

    Ma il vino egiziano, per quanto conosciuto nell’area del Mediterraneo, non aveva grande rilievo sul mercato e, considerati i rapporti che l’Egitto aveva con gli altri popoli, sappiamo, sempre attraverso le varie iscrizioni, quanto importanti fossero le importazioni di vino.

    Grazie a quanto si può leggere su un manoscritto datato 300 a.C., sappiamo della richiesta a un certo Lisimaco da parte del dieceta Apollonio, al quale erano state assegnate delle terre, per avere dei piantoni di alberi di vite e di frutta. La risposta di Lisimaco comprendeva una lista di ben undici varietà di vite.

    Nell’antichità, la Palestina era celebre per i suoi vini. Sinuhe, famoso medico reale egizio vissuto durante la XII Dinastia, ci ha lasciato un documento in cui scrive: «in quella terra, vi son fichi e uva, e il vino è più diffuso dell’acqua».

    Tuttavia, il più antico e prezioso documento in cui noi possiamo attingere e cercare informazioni sul tema vitivinicolo è l’Antico Testamento. Nella Bibbia infatti troviamo molte attestazioni che dimostrano come il vino (yayin), fosse considerato una merce preziosa e molto importante.

    Nel Libro dei Numeri si legge che gli uomini inviati da Mosè a esplorare le terre di Canaan, giunti a Hebron «tagliarono un tralcio con un grappolo d’uva, che portarono con una stanga in due». Anche la toponomastica di quei luoghi ci dà la conferma di come la viticoltura fosse importante.

    Presso Hebron, infatti, troviamo località con nomi come: «Prato delle Vigne», «Casa della Vigna», «Grappolo», «Luogo di Uve». Si può dedurre quindi come il vino si fosse solidamente affermato nella società, tant’è vero che ne conosciamo il nome di alcune tipologie. Tirosh (vino nuovo), Shekar (vino forte), Ashishah (vino mescolato al mosto), Yayin ha-rekah (vino speziato). Oltre a queste tipologie, la Bibbia fa riferimento a molti tipi di vini e ne descrive i vari impieghi, che vanno dai rituali sacri all’utilizzo in campo medico e ad altri meno nobili come l’utilizzo come tintura.

    Curioso è l’apologo che troviamo nel Libro dei Giudici, dove la vite viene invitata a regnare su tutti gli alberi. Tuttavia, la vite preferisce assolvere le proprie generose funzioni più che incensarsi e non rinuncerà al suo mosto che dà gioia. Grande esempio di saggezza che ci dà la vite in questa parabola, ma un altro pregevole riferimento lo troviamo in Siracide (24,17), dove la saggezza personificata dice di se stessa: «Come una vite ho splendidi pampini, i miei fiori portano frutti di gloria e di ricchezza».

    Questa stele funeraria di Tembu ha una decorazione che mostra, tra le scene di offerta, una delle figlie della coppia che si trova davanti alla grande giara di vino decorata con una «nymphaea caerulea» e presenta una coppa di vino ai suoi genitori. Proviene dall’antica città di Tebe occidentale, Egitto (Walters Art Museum)

    Heida 2018
    Vero gioiello della vinicoltura vallesana, la maison Robert Gilliard, fondata nel lontano 1885, ha continuato negli anni a espandersi e a modernizzarsi. Il vigneto di sua proprietà conta più di cinquanta ettari. Molti sono i vitigni che vengono vinificati, tutti appartenenti al vasto mondo ampelografico del Canton Vallese.
    L’Heida ha una storia molto antica, che sa di leggenda anche un po’ nebulosa: c’è chi parla di origini del nord della Francia, chi addirittura di origini retiche, portata dalle legioni romane. L’Heida che oggi vi proponiamo è prodotto con il Sauvignon Blanc della famiglia dei Traminer, nel basso Vallese, ed è conosciuto con il nome di Païen. Matura in altitudine e come tutti i vitigni vallesani, grazie al favonio.
    Vale la pena provare questa gemma della famiglia Gilliard, rimarrete sorpresi dai suoi deliziosi profumi di noci e nocciole. L’Heida è un bianco secco, con una buona acidità e note un po’ rustiche di pane di segale che restano a lungo in bocca. Sopporta bene l’invecchiamento, per questo noi consigliamo di berlo dopo 2-3 anni di permanenza in bottiglia. Sono pochi i produttori che vinificano questa specialità, è quindi un privilegio poterla gustare. Da accompagnare ai piatti di salumeria affumicata, ai formaggi nostri delle Alpi e ai pesci d’acqua dolce, in modo particolare alle trote di fiume.

    / Davide Comoli

  • I vini della Liguria

    Bacco Giramondo – È nelle Cinque Terre che si può gustare quella perla dell’enologia che è lo Sciacchetrà

    Quando parlano della loro regione, i liguri amano definirla: «poca terra e tanto mare». Una sottile striscia di terra spesso impervia, sassosa e difficile da coltivare. Eppure, la sua collocazione geografica e il modo di spalancare le riviere per accogliere chi arriva da lontani lidi, ha fatto di questa regione un crocevia di scambi economici, sociali e soprattutto umani.

    Dopo i secoli bui, bisogna arrivare al Medioevo per veder primeggiare i vini delle Cinque Terre e dello spezzino. Petrarca (1304-1374), nella sua Africa, dedica versi vibranti ai vini della riviera di Levante, mentre per quella di Ponente nel 1400, si fa portavoce l’umanista Jacopo Bracelli, che loda il Moscato di Taggia. Ma è Andrea Bacci (1524) che nella sua opera De naturali vinorum historia, dà risalto alla viticoltura di questa regione. Il Bacci, infatti, già mette il dito nella piaga del vigneto ligure, per risaltarne le particolari condizioni topografiche (in primis) e la grande varietà di vitigni che si sono stratificati nel corso dei secoli. Una terra condizionata dalla duplice attività della gente di questa regione, che trascorreva gran parte della loro vita in mare. Poi quando sbarcavano andavano a coltivare le cosiddette «fasce» o «pianete», piccoli appezzamenti ricavati sulle balze collinari retrostanti ai villaggi pescherecci o dotati di porti d’imbarco.

    Venendo ai giorni nostri, il territorio ligure è per circa due terzi montuoso, piccole zone pianeggianti si trovano nelle aree costiere di Albenga e Sarzana. Il vigneto si estende prevalentemente in zona collinare con circa 1600 ettari vitati, con il 65 % di vitigni a bacca bianca. L’incontro tra le Alpi Marittime e l’Appennino crea una naturale barriera alle fredde correnti provenienti da nord. Il clima è mediterraneo, con forti escursioni termiche, le quali condizionano in modo favorevole il corredo aromatico delle uve. I vigneti salgono fino a 500/600 m slm e grazie alle fresche brezze marine le malattie fungine sono drasticamente limitate. Il territorio convenzionalmente è diviso da Genova in due aree distinte, la Riviera di Levante e quella di Ponente, le quali sono molto diverse anche dal profilo vitivinicolo. In provincia di Imperia, al confine con la Francia, tra la Valle Nervia e la Val Crosia, si produce nel comune di Dolceacqua il Rossese, incontrastato vitigno di questa zona, che dà il meglio di sé dopo 3-4 anni d’invecchiamento, con i suoi profumi di marasca e fragole è un ottimo compagno sugli arrosti, in particolare il coniglio. A Campochiesa, lo stesso vitigno (Rossese), coltivato lungo la costa, dà vini meno colorati e tannini molto più morbidi, ottimo vinificato in rosato con una zuppa di crostacei. Lungo le valli che risalgono il Colle di Nava, troviamo un antico vitigno: l’Ormeasco, intensamente vinoso, con note di more e viola, dà vini di pronta beva, lo si trova pure in versione rosato con il nome di Sciacchetrà. Nella fascia collinare tra Sanremo e Taggia, non perdetevi il Moscatello, delicatamente dolce e frizzante. Nel 1500 Ortensio Lando nel suo Commentario delle più notabili e mostruose cose d’Italia scrisse: «tanto buono che se in un tinaccio di detto vino mi affogassi parerebbemi far una felicissima morte».

    Il Pigato è forse il vino di maggior prestigio del Savonese, il suo nome sembra che derivi da «pigau», cioè macchiettato, per le piccole macchie color ruggine presenti sull’acino. Il Pigato e il Vermentino, strettamente imparentati tra loro, trovano nella piana d’Albenga e lungo la strada che porta a Pieve di Teco, la zona più classica per la loro coltivazione. Ottimi con piatti di verdure ripiene e i risotti alla marinara. Obbligo di sosta tra i villaggi di Noli e Spotorno per gustare l’autoctono bianco chiamato Lumassina.

    Attraverso la Val Polcevera, si entra in territorio di Genova; è sulle alture della Coronata che troviamo la Bianchetta, vino bianco, fresco, che consigliamo sulla classica frittura di paranza. Lasciando Genova verso Levante, ci fermiamo ad Altare, dove nella piccola frazione di Uscio nell’entroterra, ci fermiamo a gustare il gradevole Dolcetto prodotto. Dopo questa puntata in «rosso», mangiamo a Camogli. E sfiorando il Monte Portofino, con qualche vigneto sparso qua e là, giungiamo nella frazione di Nozarego (S. Margherita Ligure), dove degustiamo, accompagnati dai pansoti alle noci, un bianco locale molto profumato, prodotto con i vitigni Bosco, Bianchetta e Rollo, e tra i rossi il fragrante Ciliegiolo, dal caratteristico aroma di ciliegia, assolutamente da bere giovane, d’abbinare al classico «bagnun» (acciughe e pomodoro in umido).

    «L’ampia curva di Sestri oltre s’allarga. Di qui vigneti sotto biondo sole, da Bacco prediletti, altri contemplano Monterosso e Corniglia, con i giochi così famosi per i dolci pampini», siamo in provincia di La Spezia e questi sono i versi con cui il Petrarca descriveva le Cinque Terre. In questa provincia si produce quasi il 50 % del vino ligure, sulle colline intorno al Levanto troviamo il Sangiovese, ma è nelle Cinque Terre, i cui vini potrebbero bastare per una non breve monografia, che ci arrestiamo per gustare non solo il panorama, ma la freschezza dell’Albarola, l’esuberanza del Bosco e l’eleganza del Vermentino, tutti vitigni a bacca bianca, e gustare quella perla dell’enologia che è lo Sciacchetrà. Concludiamo il nostro giro alla foce del fiume Magra, siamo nella D.O.C. Colli di Luni, dove i vini prodotti già allietavano le legioni di Roma.

    Colli del Mendrisiotto 2018
    Quasi il 35 % della superficie vitata del Ticino si trova nel Mendrisiotto. Di questi, 6,3 ha sono coltivati a Coldrerio, Balerna e Castel San Pietro, dall’Azienda Agraria Cantonale di Mezzana, diretta da Daniele Maffei. Il Merlot regna su questi terreni basici, ricchi di calcare e poveri d’argilla, i quali producono profumati vini bianchi. Qui lo Chardonnay, il Pinot Bianco, il Doral (Chasselas-Chardonnay), raggiungono un’ottima maturazione.

    Il Colli del Mendrisiotto 2018 è ottenuto dai tre vitigni citati. Vino fresco e beverino è ottimo d’estate (ma non va trascurato durante il resto dell’anno). La piacevolezza dal Doral, i sottili aromi citrini del Pinot Bianco e i riconoscibili profumi fruttati e la morbidezza dello Chardonnay, vinificati in acciaio, fanno di questo vino (dal 1913) l’ottimo partner per un aperitivo, o per piatti estivi come il vitello tonnato, un carpaccio di pesce di lago e con i filetti di pesce persico con risotto.

     

     

    / Davide Comoli

  • Lo scritto sul bere più antico

    Vino nella storia – I primi riferimenti al vino sono in caratteri cuneiformi e risalgono a quasi 2500 anni avanti Cristo

    Da millenni il vino è presente nella vita dell’uomo. Molte società gli hanno dedicato un po’ della loro vita, un po’ del loro pensiero, un po’ della loro arte, un po’ della loro fatica e molte società gli hanno attribuito dei valori.

    Il più antico documento reperito fino ad oggi dagli archeologi, che riporta un esplicito riferimento al vino è scritto in caratteri cuneiformi ed è datato tra il 2350/2450 a.C.

    È contenuto in una iscrizione dove vengono enumerate le imprese di Urukagina, sovrano sumerico di Lagash. Fra le sue gesta degne di lode, è segnalata la costruzione di un deposito, dove veniva immagazzinato il vino in grandi vasi.

    Secondo l’iscrizione, il vino proveniva «dalla montagna» e, secondo studiosi della cultura mesopotamica, questo riferimento potrebbe indicare una parte pedemontana del Caucaso, costituita dall’Anatolia Orientale.

    Dopo questa prima citazione il vino compare sempre più spesso negli antichi testi in cuneiforme. Si tratta soprattutto di documenti commerciali. Migliaia di tavolette testimoniano un fiorente commercio d’importazione che si svolgeva per via terra e per via fluviale. Il punto nodale di questo commercio con il nord era Karkémish, grande porto sul fiume Eufrate, poco a nord di Aleppo; Eman era invece il porto di contatto verso l’Occidente per il collegamento con Aleppo, Canaán e i porti della costa mediterranea, come Biblos e Ugarit, celebri zone reputate per i loro vini.

    Lungo l’Eufrate navigava una flotta specializzata nel trasporto del vino e grazie alla decifrazione delle tavolette, possiamo persino conoscere il nome degli antichi mercanti di vino che operavano in Mesopotamia. Veniamo così a sapere che il costo del vino in queste terre ricche di cereali era molto alto. Il vino veniva venduto a un «siclo» ogni 20 l, vale a dire un prezzo 250 volte superiore rispetto a quello del grano.

    Il vino si configurò come prodotto di lusso, destinato agli dei, ai grandi re, alle classi più agiate, divenendo strumento per manifestare la generosità regale.

    A partire dal 1700 a.C. circa, iniziarono a impiegare aggettivi per qualificare le diverse tipologie di vino. Innanzitutto, crearono la distinzione tra vino giovane e vino vecchio, poi definirono il buon vino, di buon gusto, rispetto a quello ordinario. Nello stesso periodo comparvero i vini forti, dolci, molto dolci, ma anche amari, aggiunti forse da estratti di mirto. In merito al colore si trovavano vini chiari e vini rossi, addirittura con sfumature «occhio di bue», a noi poco chiara come definizione.

    È con il 1500 a.C. che alcuni luoghi di provenienza dei vini incominciarono a rivestire una certa importanza e notorietà. Si trovavano soprattutto nella regione siro-armena, e tra questi siti importanti figura Helibunu (la fertile Helbon).

    Più si saliva verso il nord della Mesopotamia, più il vino veniva citato. Sul medio Eufrate nel paese di Suhu, si produceva il vino di una certa fama. Più a nord nel Regno di Mari, il vino era molto più citato della birra. Il re, la persona più ricca e potente del Paese, ne possedeva importanti riserve che teneva sotto chiave nel suo bit kanni, il magazzino delle rastrelliere, attrezzato per poter sistemare le anfore appuntite, chiamate karpatu, recipienti in terracotta usati per il trasporto e la conservazione del vino.

    Nelle cantine reali si tenevano registrazioni molto precise sull’entrata e sull’uscita del vino. Piuttosto generici sono invece i riferimenti sulle operazioni di cantina come travasi, tagli e mescolanze. Si sa però che esistevano degli esperti che presiedevano a queste operazioni, che assaggiavano il vino e stabilivano quando considerarlo pronto per essere immagazzinato o pronto per essere spedito.

    Nel nord della Mesopotamia, il vino sembra addirittura che avesse quasi soppiantato la birra, pur restando quest’ultima la bevanda nazionale. Sempre nel nord è stata ritrovata, da un gruppo di archeologi, la città di Karanà che significa «vinosa», un toponimo fortemente evocativo della realtà locale.

    Negli archivi del palazzo di Mari, oltre alle tavolette, hanno delle fitte rastrelliere che custodivano le riserve reali di vino, su talune di esse ci sono state trasmesse alcune curiosità sul modo in cui si beveva.

    Sappiamo così che a Mari si mescolava al vino, acqua, miele ed essenze aromatiche. Alle tavole più esclusive si beveva il vino raffreddato con il ghiaccio. Questo si raccoglieva d’inverno sulle montagne e si conservava in appositi magazzini (ne abbiamo visitati alcuni in un nostro recente viaggio in Iran). Bere vino era indice di festa, di allegria, siglava la conclusione di un contratto, simboleggiava la riconciliazione e l’omaggio verso gli dei.

    Un’iscrizione su una tavoletta datata fine II millennio a.C., che accompagnava un dono di vino a un re di Babilonia, riporta questo augurio: «Che il mio Signore beva la vita, bevendo il vino amaro di Tupliash, resto dell’offerta alla dea Ishtaran, che ti ama».

    Interessante anche la descrizione di un memorabile banchetto che venne organizzato all’inizio del I millennio a.C. in Assiria nella città di Kalhu, l’odierna Nimrod.

    Il re per celebrare il suo potere aveva fatto costruire uno splendido palazzo in cui per diversi giorni fu preparato un monumentale banchetto al quale parteciparono 69’574 invitati. Il grande Assurnasirpal, fu grande anche nell’offerta di libagioni: per suo ordine distribuirono 12mila otri di vino ed altrettante giare di birra, le due bevande considerate le più richieste e più amate dalla civiltà mesopotamica. La birra a base di orzo era la bevanda più comune, il vino la più pregiata e segno di elevato stato sociale.

    Filari della Luna
    Salendo da Bioggio, la strada con una lunga successione di curve ci porta a Bosco Luganese, ridente villaggio che s’affaccia sul golfo di Agno. Tra i due villaggi aggrappati alla montagna troviamo i vigneti dove, dal 1989, Umberto Monzeglio, con l’aiuto del figlio Matteo – lavorando duro per liberare il terreno dalle sterpaglie, regno dei cinghiali – ha dato sfogo alla sua passione: quella di produrre vino. Lavorare la vigna in queste zone è una vera fatica; qui tutto si fa manualmente, come d’altronde succede in quasi tutto il nostro Cantone e questo, dobbiamo ricordarlo ai nostri lettori, incide sul prezzo, in quanto si tratta di una fatica da «Viticoltura Eroica».

    Filari della Luna è un nome poetico ben appropriato a questo Merlot: guardare le luci lontane di Lugano tra i filari delle vigne, abbarbicate sui pendii che salgono a Cademario, alla luce della Luna è un’esperienza indimenticabile.

    Con i suoi intensi profumi di piccoli frutti rossi e leggera speziatura, con i tannini vellutati e la persistenza gusto/olfattiva, il Filari della Luna è l’ideale compagno di una cena romantica, magari guardando le «stelle cadenti» nella notte di San Lorenzo.

    / Davide Comoli

  • Andar per vini in Alto Adige

    Bacco giramondo – Influenzata dai Romani, la cultura vitivinicola degli altoatesini si dice vanti un’esperienza di oltre tremila anni

    La coltivazione della vigna in Sudtirolo giunge verso est sino alla zona attorno a Bressanone (Brixen) a 700 m slm, mentre il Val Venosta raggiunge Kortsch a 800 m slm. Sui pendii e lungo i fianchi delle vallate, i vigneti arrivano a sfiorare i 900 m, come ad esempio a Renon (Ritten).

    Oggi il vigneto dell’Alto Adige è come un mosaico di circa 5800/6000 ettari, ma anticamente l’area in cui veniva coltivata la vite aveva un’estensione maggiore. Sia perché forse c’erano migliori condizioni climatiche, sia per il fatto che i vitigni si adattavano di più oppure i vini erano fatti per consumatori meno esigenti.

    Camminando tra i vigneti altoatesini, si respira un’atmosfera che ci riconduce ai fasti dell’Impero Austroungarico, case con facciate dipinte, piccole chiese con i tipici campanili a cipolla, villaggi impreziositi da castelli immersi in fitti boschi e pascoli.

    I terreni – ricchi di porfido – sono in prevalenza di origine calcarea, e si sono formati dopo il ritiro dei ghiacciai, nel fondovalle per lo più pianeggiante e pietroso, che costringe le radici delle viti ad aprirsi con fatica la strada alla ricerca delle falde acquifere, e di nutrimento: ecco spiegato il motivo per cui i vini di questa regione hanno tutti spiccate note minerali, grande freschezza e, per i rossi, un basso tenore di tannini.

    Nella zona di Bressanone, affiorano rocce granitiche, mentre sull’altopiano che circonda Bolzano più a sud, è il porfido rosso che la fa da padrone; ma non lasciate l’Alto Adige senza visitare la Valle del fiume Isarco, dove – unico al mondo – potete ammirare gli affioramenti di «calcare dolomitico». Grazie alla sua grande permeabilità, è particolarmente adatto ai prestigiosi vitigni a bacca bianca della zona.

    Le estati fresche e gli inverni rigidi caratterizzano il clima tipicamente montano, ma sono le forti escursioni termiche giornaliere che in estate creano le condizioni ideali per arricchire in modo straordinario il bagaglio aromatico delle uve.

    Lo sviluppo ottimale delle vitivinicolture della Valle è favorito dalle quasi duecento ore di sole annuali, da precipitazioni di moderata entità, dalle Alpi che creano una barriera ai gelidi venti del nord e dal caldo «Föhn» che spesso spira tra le vallate.

    Si può ragionevolmente supporre che la viticoltura, in questa regione, fosse già praticata più di tremila anni fa; sicuro, però, è che i Romani ne furono i principali maestri e diffusori. Numerose parole come: Wein, Keller, Kelter, Torggl, Kufe, Spund, Most ed Essig, sono prestiti latini e tutto sta a indicare che le popolazioni germaniche, prima di entrare in contatto con i Romani, non conoscevano il vino.

    La viticoltura nel Tirolo meridionale superò molto bene le varie invasioni barbariche. Corbiniano di Frisinga (725), vescovo, fece piantare dei vigneti a Kuens e a Kortsch, in seguito numerosi vescovati e abbazie germaniche divennero proprietari di vigneti in Sudtirolo.

    È nel XIII secolo che i diversi vitigni vengono denominati a seconda del luogo di provenienza: la «Vitessclave» (la Schiava), proveniva dalla costa slava dell’Adriatico. Nel 1220 documenti parlano del «Vinum de Caldario» (lago di Caldaro), del «Bozenaere» (Bolzano) e del «Traminer» (Termeno).

    Ma il grande impulso alla vitivinicoltura della regione fu senza dubbio dato dall’editto del 1769 promulgato dall’Imperatrice Maria Teresa, grande sovrana illuminata, la quale concesse un’esenzione fiscale «trentennale» per tutti i nuovi impianti. Non di meno fece circa cento anni dopo, nel 1850, l’Arciduca Giovanni d’Austria, grande sostenitore e protettore dell’agricoltura che introdusse tra l’altro i vitigni del Riesling, del Silvaner, del Pinot Nero e del Pinot Bianco.

    Le zone vitivinicole altoatesine si snodano per circa 70 chilometri attraverso realtà diverse tra loro per clima, esposizioni, altezza di impianti, passando tra colline soleggiate e ripidi pendii, costeggiando scorci alpini di incredibile fascino.

    La zona più estesa e più calda è la Bassa Atesina, con terreni ricchi di calcare e affioramenti di argilla, dove trova l’habitat ideale, grazie anche all’ottima ventilazione, il Gewürtztraminer.

    In quel di Termeno questo vitigno ci regala vini profumati e morbidi, ma da trovare soprattutto sono i vini prodotti con «vendemmia tardiva»: sono un’esplosione di profumi, sapori e morbidezza, da provare sui formaggi a crosta lavata.

    L’Oltradige, con i suoi castelli resi celebri dai villaggi di Caldaro e Appiano, ospita la Strada del vino dove sono a dimora vitigni a maturazione tardiva; grazie al clima più caldo, ottimi i Cabernet Sauvignon e il Merlot d’abbinare ai tipici piatti di selvaggina da pelo. Qui troviamo ottimi Sauvignon e Pinot Bianco, coltivati in vigne dove regna il porfido e il calcare, che danno ai vini grande sapidità e mineralità.

    La Schiava e il Lagrein di Gries sono i regnanti incontrastati dei «Bozner Leiten» (Colli di Bolzano). Strutturata e vellutata, la Schiava, quella coltivata nella sottozona Santa Maddalena, risulta essere l’ideale compagna del «fegato alla veneziana». Anche nella zona di Merano si coltiva con successo la Schiava, ma qui è più fresca e leggera, ottimi invece sono i Pinot Nero e i Merlot, che maturano su terreni ghiaiosi.

    La Valdadige è situata tra le province di Bolzano, Trento e Verona, si distingue per tre sottozone molto famose: Terlano, Nalles e Andriano; qui le radici devono scavare molto in profondità per raggiungere il vitale nutrimento, che dà origine a vini di grande mineralità e longevità, che alle volte stupisce, soprattutto nei Sauvignon, Pinot Bianco e grandi Chardonnay.

    Tra filari di mele che contendono spazio ai filari delle viti, entriamo in Val Venosta (Vinschgau), qui il clima è più secco e nei pressi di Merano troviamo incredibili Pinot Nero; lo abbiamo provato con un cosciotto d’agnello all’anice stellato: «sublime». Nei pressi del villaggio di Naturno abbiamo gustato un Riesling che non aveva nulla da invidiare ai più noti vini Alsaziani.

    Non dobbiamo dimenticare i vivaci Müller Thurgau, un meraviglioso Kerner, vitigno particolarmente resistente al freddo e dulcis in fundo, i dolci Moscati Gialli e Moscati Rosa, anche in versione Passiti.

    Clos Floridène
    Un po’ prima di entrare nella città di Langon (Bordeaux), troviamo un terreno composto da una serie di affioramenti di depositi sedimentari, dove dominano ciottoli misti a sabbia con delle sacche d’argilla che si sono accumulate nel corso del tempo. Ci troviamo nella zona chiamata «Graves».
    Qui il famoso enologo Denis Dubourdieu – conosciuto in tutto il mondo per i suoi consigli per produrre i vini bianchi, pioniere della pratica del bâtonnage e della macerazione pellicolare – ha creato nella sua tenuta a Pujols, il «Clos Floridène», un grande vino bianco prodotto da uve Sémillon, Sauvignon e 1% di Muscadelle che dona una tipica aromaticità.
    Dal colore giallo oro con un brillante riflesso verdolino, il «Clos Floridène» ci porta al naso freschi profumi di frutta dalla polpa bianca e piacevoli note aggrumate, con un tocco di spezie e cera d’api. Molto equilibrato in bocca e piacevolissima la sua vivacità, con un lungo finale che lascia in bocca la freschezza della frutta.
    Da bere a una temperatura tra 8° e 10° C, è l’ideale compagno estivo per i vostri piatti di pesce e crostacei.

     

     

    / Davide Comoli

  • Quando si giunse al proibizionismo

    Vino nella storia – Il viaggio lungo i secoli che hanno messo in relazione le proprietà reali o fantasiose del vino in campo medico giunge ai giorni nostri – 5a parte

    Alla fine del 1600 non c’era nessuna regolamentazione che prevedesse il modo di preparare i vini medicinali, produzione che in moltissimi casi era lasciata alla mercé di «ciarlatani» o «apprendisti stregoni». A questo proposito si narra che il celebre fisiologo francese Claude Bernard, mentre lavorava come apprendista in una farmacia di Lione, e ansioso com’era di conoscere il segreto che stava dietro al «Theriaque» – vino medicamentoso molto richiesto – rimase non poco meravigliato quando venne a scoprire che il medicamento veniva prodotto mischiando tutti i medicinali che periodicamente si accumulavano nel retrobottega.

    In questo clima poco propizio al rapporto tra vino e salute, vi erano però anche studiosi onesti che scrivevano lodando le virtù terapeutiche del vino senza troppi intrugli strani. Nel 1725, ad esempio, il medico e farmacologo modenese Giovanni Battista Davini, scrisse il De potu vini calidi, lodando il vino caldo per «sciogliere la bile», agevolare la circolazione dei succhi digestivi e rendere più attivi i «fermenti stomacali». Tutti conosciamo da molto tempo come una pozione di vino caldo sia un toccasana per molti malanni.

    Anche il medico svizzero Albrecht von Haller, nel 1750, consigliava ai suoi pazienti l’uso del vino come farmaco contro le malattie che causano l’inabilità. La svolta su queste preparazioni si ebbe nella seconda metà del XIX secolo, quando il farmacista inglese William Heberden espresse giudizi molto severi nei confronti di «questo genere di miscugli, provenienti da diversi Paesi, che si nascondono l’uno dietro l’altro…». Grazie a queste denunce condivise da parecchi medici, la situazione cominciò lentamente a cambiare, segnando una tappa molto importante nell’evoluzione storica del rapporto tra vino e salute.

    È da questo momento, infatti, che la medicina incomincerà a studiare le qualità terapeutiche dei singoli elementi che compongono i vini medicinali. L’attenzione della medicina dell’epoca, si sta progressivamente focalizzando sull’ingrediente del vino più facilmente individuabile che è l’alcol, grazie agli studi sulla fermentazione fatti da Antoine-Laurent de Lavoisier (1743-1794), fondatore della moderna chimica.

    È a questo punto che dobbiamo attraversare l’Atlantico per avere come riferimento la storia degli Stati Uniti all’inizio del XIX sec.

    Nel lontano 1833 fu stampato il Manuale della farmacopea americana, nel quale il dottor Robert T. Edes scrisse: «l’azione del vino sull’organismo è essenzialmente quella svolta dell’alcol». Oggi questa constatazione ci pare ovvia, ma se pensiamo bene è molto probabilmente la prima volta in più di quattromila anni di storia che un medico fa una così esplicita equivalenza tra vino e alcol. Infatti, se si eccettuano alcune discussioni a carattere filosofico sull’ebbrezza risalenti alla Grecia antica, il tenore alcolico del vino era stato raramente oggetto di discussioni mediche.

    Pur mettendo in guardia contro i pericoli dell’alcol, nello stesso periodo si riconoscevano al vino preso in dosi modeste, proprietà terapeutiche, specie per un’azione benefica sul sistema cardiovascolare e sul sistema digerente. All’inizio del XX secolo sarà proprio l’alcol il protagonista negli Stati Uniti di una campagna proibizionistica che non ha uguali nella storia umana.

    Più precisamente, tra il 1920-1933, forse l’insieme di elementi radicati nella cultura puritana americana, ma anche l’esito di ricerche scientifiche svolte dal 1860 in poi in diversi Paesi sui pericoli dell’alcol, danno inizio al Proibizionismo.

    Già il focolaio era stato acceso in Germania e poi esportato in tutta Europa dal dottor Oswald Schmiedeberg (1838-1921). Le sue teorie stimolarono una forte campagna antialcolica che proponeva l’eliminazione totale da tutte le terapie dell’epoca.

    Prima ancora di Schmiedeberg, il dottor Nestor Gréhant nel 1899 a Parigi, aveva messo in relazione il contenuto di alcol presente nel sangue con gli effetti tossici delle bevande alcoliche. In seguito a questi ed altri studi e ricerche sull’argomento, alcuni medici cominciarono ad avere forti dubbi sull’uso dell’alcol in medicina, ma soprattutto sugli effetti che quest’ultimo poteva avere se assunto in dosi elevate.

    I risultati di queste ricerche non si fecero attendere: nel 1916 la Commissione statunitense di farmacopea, toglie dal suo ricettario oltre che i superalcolici tutti i vini medicinali e nel 1919 viene approvato il XVIII emendamento della Costituzione che vieta la vendita, la fabbricazione e il consumo di alcol in tutto il Paese.

    Mentre i promotori dell’iniziativa esultano, i risultati della legge in poco tempo risultano catastrofici; i nostri lettori avranno di sicuro seguito qualche film o servizio televisivo nei quali viene documentato il fallimento di questa esperienza che si chiuse ufficialmente il 5 novembre 1933, quando il presidente Roosevelt, firmò il XXI emendamento della Costituzione.

    L’immagine terapeutica del vino esce piuttosto ridimensionata da 13 anni di proibizionismo: appare evidente che le qualità medicinali associate a questa bevanda non sono mai state realmente oggetto di serie ricerche scientifiche.

    Ci siamo ormai definitivamente allontanati dal vino come medicamento, sorridiamo al pensiero dei «vini medicinali» dei secoli passati. Oggi alcuni ricercatori tendono ad attribuire ai polifenoli (gruppo di composti chimici che includono tannini) un’azione benefica. Tra questi composti chimici si ricorda soprattutto il resveratrolo. Ma l’addentrarsi in un concetto di vino considerato soprattutto come riduttore di «rischio» di alcune gravi patologie è un campo minato, nel quale noi (assolutamente incompetenti in campo medico) non possiamo avventurarci.

    Vale dunque il vecchio adagio: «Ofelee fa’l tò mestee!» ma lasciateci affermare che nonostante mille anni di storia colmi di pregi e di mancanze, il vino conserva sempre un alone di mistero, che forse nessuna ricerca medica potrà cancellare, e dunque, alzando il nostro calice colmo di un rosso color sangue, brindiamo a voi cari lettori che avete avuto la pazienza di seguirci: «à la santé».

    Greco di Tufo

    Il Greco, parliamo del vitigno, può considerarsi fra i più antichi che si conoscono: secondo gli esperti di «ampelografia» si ritiene sia lo stesso che Plinio identificava «nell’Aminea gemina», portato dai coloni greci al loro sbarco in Campania.

    La sua terra d’elezione è Tufo in provincia di Avellino. L’azienda Mastroberardino di Atripalda (AV), rappresenta la più autentica tradizione campana; lo stile dei suoi vini eleganti, capaci di sfidare il tempo, sono una positiva immagine della viticoltura del Bel Paese nel mondo.

    Il Greco di Tufo che vi proponiamo si presenta di un bel colore giallo dorato, piacevolissimo al naso, dove si percepiscono toni di erbe, bacche mediterranee e officinali, poi ancora frutta, agrumi, polpa di pesche e mango, lunghe sensazioni che culminano con una nota sulfurea. Anche in bocca, dopo alcuni istanti, ripropone lo stesso quadro di profumi. È un Greco fresco d’acidità, che unisce corpo e armonia di lunga durata nel palato. Armonizza in modo perfetto piatti di mare consumati crudi come carpaccio, tartare, ma vista la stagione si sposa bene anche con le vostre grigliate di pesce.

     

     

    / Davide Comoli

  • La secolare pergola valdostana

    Bacco giramondo – Le fatiche della gente di questa valle porta alla produzione di vini d’eccellenza ma non riesce mai a soddisfare la domanda

    «Eroico» il termine può sembrare banale, ma è quello che meglio rappresenta la viticoltura della Valle d’Aosta.

    La Dora Baltea ha scavato nei secoli il suo alveo e percorre la Valle da ovest verso est. In questi luoghi, da secoli, la vite (il 65% vitigni autoctoni), ha selezionato gli anfratti e le migliori conche, dove il clima si fa più propizio a una coltura viticola orientata alla qualità e alla piacevolezza: il clima valdostano è continentale, caratterizzato da inverni lunghi e rigidi, frequenti gelate primaverili ed estati calde con un’ottima escursione termica, fattore che favorisce una maggiore intensità olfattiva nei vini prodotti.

    Il vino è rimasto per secoli un alimento di particolare ricchezza in una società dove il benessere non era certo denominatore comune. La coltura vinicola, espressa il più delle volte nella forma ricorrente (la pergola valdostana), ha accompagnato per secoli le vicende umane.

    L’uomo ha plasmato il territorio con enorme fatica, plasmandolo con quella struttura a gradoni, caratterizzata da muretti a secco e più o meno pianeggianti strisce di terra.

    L’attaccamento della gente valdostana a questo genere di «viticoltura eroica», porta alla produzione di vini d’eccellenza, ma che non riesce mai a saziare la domanda.

    Gli ettari vitati sono 520, dei quali ben il 65% in montagna. A dipendenza dell’annata si producono circa 15mila ettolitri di vino, dei quali l’80% rossi o rosati, il 15% vini bianchi, ma l’originalità dei vini della Valle è data da vitigni autoctoni, i quali con i loro caratteri individuali danno senza dubbio originalità, rendendo inimitabili questi vini. La resa è molto bassa, circa 6 t/ha.

    Circondata a mo’ di ferro di cavallo dalle Alpi Graie, le quali culminano nel gruppo del Monte Bianco, la Valle è una delle zone più riparate d’Europa, ma anche una delle più secche. Nel giro di poche decine di chilometri, la vite deve affrontare situazioni ambientali molto differenti, determinate da un’altitudine che passa da 300-400m della Bassa Valle ai 500-700m della parte centrale, fino ai 1200m di Morgex.

    Nella parte bassa si trovano le zone più vitate, con terreni a tessitura franco-sabbiosa, e la presenza di scheletro a favore del drenaggio. Qui crescono vitigni a bacca nera come il Nebbiolo e derivati. La parte centrale, invece, vanta terreni poco fertili. Mentre verso Morgex, i terreni sono di natura granitica: ed è proprio qui che viene prodotta una delle gemme locali, il «Blanc de Morgex et de la Salle».

    Man mano che si sale, è d’obbligo impiantare la vite solo sui versamenti più assolati e più riparati, per cui nelle parcelle che si trovano in zone più elevate vengono coltivati vitigni a bacca bianca, i quali beneficiano di un’ottima acidità, mentre sui terrazzamenti orientati a sud, nel Mezzo e Bassa Valle, si privilegiano vitigni a bacca rossa, i quali danno dei vini robusti e corposi.

    Dal 1987 il CERVIM (Centro di ricerche, studi e valorizzazione per la viticoltura montana), prosegue l’obbiettivo di salvaguardare e promuovere la viticoltura in montagna e/o in condizioni orografiche difficili, come in forte pendenza o terrazzamenti, minacciata dagli alti costi di produzione e dalle caratteristiche del territorio.

    Furono i Salassi, preistorica tribù di origine ligure-gallica, i primi abitatori della Valle, a praticare la coltura della vite, favoriti da condizioni climatiche migliori delle attuali.

    Sconfitti nel 25 a.C. dal console romano Aulo Terenzio Varrone, più di 35mila di loro furono deportati come schiavi e la Valle passò sotto il dominio di Roma.

    I primi documenti che ci parlano di vini appaiono nel 515, momento in cui, Sigismondo (re dei Burgundi poi riconosciuto santo) fondò l’Abbazia di S. Maurizio nel Canton Vallese. La tradizione vitivinicola fu mantenuta nei monasteri anche sotto i vari domini stranieri che hanno nei secoli attraversato la Valle.

    Nella seconda metà del 1800, la filossera sconvolse tutto quel che era stato creato nel passato. Dal 1985 la struttura qualitativa della vitivinicoltura ha preso la sua definitiva fisionomia che prevede una sola D.O.C. Valle d’Aosta o Vallée d’Aoste, denominazione che viene poi suddivisa in sette sotto-denominazioni le quali fanno riferimento a zone di produzione più piccole: Donnas, Arnad-Montjovet, Chambave, Nur, Torrette, Arvier e Morgex-La Salle. Ciascuna di queste caratterizza ancora meglio la propria produzione, utilizzando il riferimento a un vitigno, al colore o alla metodologia d’ottenimento: circa trenta sono le varie tipologie.

    Lo sperone del Monte Cormet che divide Morgex da Courmayeur, impedisce agli abitanti di Morgex di vedere il Monte Bianco. Per fotografare la cima del Bianco e in primo piano i vigneti, siamo saliti a Villaret, frazione di La Salle. I due comuni costituiscono il tetto della viticoltura europea, dove resiste a più di 1200 m il Prié Blanc, sui terrazzamenti a pergole basse, su ceppi a «piede franco», che danno un vino ricco di mineralità, sentori di erbe alpine e fiori di sambuco.

    Prima d’incontrare la piana aostana che è un po’ il cuore della viticoltura della valle, troviamo lo storico rosso Enfer d’Arvier, assemblage di rossi autoctoni, Petit Rouge, Mayolet, Fumin e Vien de Nus, ottimo con la tipica «carbonade»: spettacolare è l’anfiteatro di rocce, soleggiato anche in inverno, in cui matura.

    Dove la Dora Baltea s’allarga a fondo valle, i vigneti si estendono su una stretta fascia di terreno che da ovest a est si estendono da Villeneuve fino a Montjovet, toccando i comuni di Introd e Aymavilles, il più vitato della regione. Questa è la zona elettiva per gli autoctoni a bacca nera, il Petit Rouge, capostipite di quasi tutti i vitigni rossi aostani; il Fumin che si affina con ottimi risultati, molto spesso vinificato in purezza, stupendo con gli gnocchi alla fontina; il Vien de Nus, da godere se bevuto giovane; interessanti pure il Cornalin (Humagne Rouge in VS) e il Mayolet; e se avete la fortuna non lasciatevi sfuggire il raro Vuillermin. Non mancano di certo i vitigni internazionali come il Gamay, Syrah, Merlot, ma se vi trovate a Saint-Pierre, passate dalla Maison Anselmet a provare (poche bottiglie) il superbo Pinot Nero.

    Tra i bianchi internazionali, il più coltivato è lo Chardonnay con Müller Thurgau, Pinot Grigio (chiamato Nus Malvoisie), l’emergente Petite Arvine, sconfinato dal vicino Vallese, il Prëmetta uva a bacca grigia che dà buoni rosati, e il Moscato Bianco, sia secco che dopo appassimento.

    In fondo valle, da Montjovet a Bard, si coltiva il Nebbiolo, su terrazze ripide e pergole sorrette dai «pilun» (colonne di granito), dove le vigne sembrano templi dedicati a Bacco.

    Brindiamo al nostro viaggio con un rosso di montagna austero, di fronte a una tipica e fumante fonduta; a due passi inizia il Piemonte.

    Malbec Terrazas de los Andes
    Un tempo popolare a Bordeaux, il Malbec è un vitigno oggi molto legato all’Argentina, tanto da esservi stato per un certo periodo la varietà di uva a bacca nera più allevata.

    Il Malbec arrivò in Argentina esattamente a Luján de Cuyo (Mendoza) a metà del XIX sec. portato dal francese Aimé Pouget, divenuto negli anni l’alfiere della viticoltura del Paese sudamericano, che occupa la quinta posizione come produttore nel rango mondiale.

    Situati lungo le vallate degli altopiani delle Ande, i vigneti della zona di Mendoza si trovano a un’altitudine che varia dai 200 fino ai 1700 m sul livello del mare, come quelli del Malbec prodotto dalla storica cantina Terrazas de los Andes.

    Da noi provato, si presenta con un colore rosso profondo, con leggera unghia violacea; al naso rivela note di ciliegia matura e frutta scura, con un leggera speziatura, i tannini sono morbidi e testimoniano una grande struttura con un finale piacevole che sa di cioccolata.

    Nel nostro recente viaggio lo abbiamo spesso gustato con i grandi piatti di carne alla brace, per questo lo raccomandiamo per le vostre grigliate estive.

    / Davide Comoli

  • Bacco in camice bianco

    Vino nella storia – Nel 1300 il vino era soprattutto un solvente alcolico al quale venivano aggiunte varie sostanze come base di preparazioni medicinali – Quarta parte

    Come la storia ci ricorda, non tutta la cultura medica dell’epoca voleva stare sotto il diretto controllo della Chiesa, con grande pericolo per l’incolumità generale. Uno dei personaggi più famosi che rappresentano questa parte medica meno «allineata» fu Arnaldo di Villanova (1235-1311). Sia la Spagna sia la Francia ne rivendicano le origini: secondo i primi nacque a Villanueva, piccolo villaggio della Catalogna, a parere dei francesi, nacque invece a Villeneuve-Loubet presso Nizza (paese da cui proviene il grande maestro della cucina Georges Auguste Escoffier 1846-1935). All’apice della sua carriera, Arnaldo era visto come il miglior fisico alchimista della sua epoca, e insegnava alla Facoltà di Medicina di Montpellier, fondata il 26 ottobre 1289. Il suo pensiero, poco ortodosso dal punto di vista teologico, gli creò non pochi nemici tra ecclesiastici e accademici. Accusato di eresia dalla Santa Inquisizione, fu salvato in extremis da Papa Bonifacio VIII.

    Una delle sue opere più famose è Liber de Vinis, in cui troviamo, oltre alle personali osservazioni, numerose credenze dell’epoca legate alle qualità terapeutiche del vino. Leggendo un passo da quest’opera scritta nel 1300 e raccolta nel 1524, ci rendiamo conto di come era difficile abbandonare i dettami del passato: «Il vino bianco è migliore per il corpo umano. Perché esso è più soffice e ricettivo in tutti i suoi vapori. Esso trasporta tutte le virtù delle sostanze incorporate, attraverso le membra naturalmente e piacevolmente». In quest’opera si contano ben quarantanove ricette a base di vino. A lui dobbiamo pure la traduzione in latino dei testi del grande medico e filosofo Avicenna (alias Ibn Sina, alias Abu Ali, 980-1037), il quale con la sua opera Canone di Medicina ebbe molta influenza sul Medioevo. Ma il Villanova è ricordato soprattutto perché fu uno dei primi a prestare attenzione ai distillati di uva/vino chiamati aqua vitae (acqua della vita): le ferite lavate con «i distillati di vino – scrisse – si cicatrizzano più facilmente».

    A Villanova dobbiamo pure il perfezionamento con il processo chiamato mutage: aggiungendo spiriti al vino per fermarne la fermentazione e preservarne la dolcezza, inventò i «vin doux naturel» antenati del nostro Vermouth e dei vini fortificati.

    Da notare come dietro l’interesse di Arnaldo di Villanova nei confronti della distillazione del vino ci fosse «l’alchimia», che a quell’epoca aveva cominciato a diffondersi in tutta Europa. Non va dimenticato che uno dei suoi scopi primari era infatti la ricerca «dell’elisir di lunga vita» o dell’immortalità. Questo coinvolgimento del vino in modo irrazionale, ci fa capire con quanta lentezza la storia medica dell’epoca abbia fatto dei passi avanti. Alla fine del XIV sec., l’uso del vino a scopo terapeutico prevedeva due diversi tipi d’applicazione: quello interno e quello esterno al corpo umano. In quell’epoca il vino era soprattutto un solvente alcolico, al quale venivano aggiunte varie sostanze come base di preparazioni medicinali.

    Al vino presto s’affiancano distillati di uva, grano, eccetera, e ogni monastero cominciò di conseguenza a dotarsi di una propria raccolta di piante medicinali, droghe e spezie (pigmentarius), antesignane delle nostre farmacie. Va ricordato che, all’epoca, la polvere da sparo ancora non era entrata in scena e quindi le ferite da arma da taglio erano quelle che creavano più problemi ai chirurghi di quel tempo. Infatti, il Medioevo non fu affatto un periodo felice per questa importante disciplina medica. La pratica della chirurgia fu addirittura, anche se per breve durata, proibita ai monaci dall’Editto di Tours (1162).

    I chirurghi militari, tra i quali ricordiamo Henri de Mondeville (1260-1320), il quale aveva già preconizzato l’immediata sutura delle ferite, incoraggiava la consumazione di vino subito dopo l’intervento (contrariamente agli insegnamenti di Ippocrate). Il vino veniva comunemente usato per stordire i pazienti prima di un intervento, ed era usato come antisettico per disinfettare le ferite.

    Fino al XVI sec. il dibattito sull’uso del vino in chirurgia attraversò l’Europa. Al centro della disputa, stavano due fazioni di medici: il contrasto verteva sul modo migliore per cicatrizzare le ferite. Da una parte i sostenitori che cercavano di provocare in modo esplicito la suppurazione delle ferite, dall’altra di coloro che le disinfettavano inumidendole con il vino. Tra questi ultimi spicca il nome del francese Guy de Chauliac che predicava meraviglie sull’uso del Muscat de Frontignan.

    I poteri antisettici del vino ebbero però modo di essere dimostrati quando in Europa, verso la metà del XIV sec., scoppiò l’epidemia di peste nera, che per la rapidità di contagio e la imprevedibilità destava infinito sgomento. A Milano, i pochi medici rimasti consigliavano prima di uscire di casa di bere, a scopo profilattico, un bicchiere di vino bianco. Nel Decamerone del Boccaccio, si racconta che durante la grande epidemia del 1348, l’Università di Medicina di Parigi raccomandasse come prevenzione di bere un brodo preparato tagliando il vino con un sesto d’acqua mischiato a pepe, cannella e spezie.

    Era insomma questo del XIV sec. il periodo in cui dominavano i «vini pigmentati» ClaretumPigmentum e l’Hypocras, che con l’aggiunta di varianti si cercava di rendere più appetitosi possibile, ed erano considerati come una sorta di panacea per tutti i mali.

    Queste preparazioni che, come abbiamo visto, affondavano le loro radici in epoche molto più lontane, diventarono sempre più elaborate. Intorno ad esse fiorì un lucroso commercio, che finì per alimentare numerose truffe per lungo tempo, raggirando molte persone. Una ricetta del 1600 della Farmacopea della città di Londra recitava ad esempio: «Vino all’acciaio, corteccia peruviana, urina umana, occhi di granchio e whisky irlandese».

    Delizia 2018
    Giugno «si spalanca come una rosa nel bicchiere», così scriveva Giuseppe Marotta. Queste parole ci sono tornate in mente quando abbiamo degustato il «Delizia 2018», prodotto da Roberto Belossi nella sua Cantina il Cavaliere nel comune di Gambarogno.

    Prodotto con uve Merlot, allevate sui fianchi del Ceneri dominanti il Lago Maggiore, dopo una breve macerazione sulle bucce, nasce il Delizia. Vino rosato, conviviale, ottimo come benvenuto per accogliere gli amici che vengono a farci visita.

    Il suo colore ricorda i petali di certe peonie, il suo profumo è fresco, delicato e floreale, dove ritroviamo i sentori di rosa con una leggera sfumatura di fragoline di bosco. Abbastanza leggero di alcol, ha un finale piacevolissimo che invita a bere un secondo bicchiere, magari sulla terrazza godendo della bella stagione. S’accompagna magnificamente a piccoli bocconcini d’antipasti non troppo pesanti. È un vino che permette di passare a tavola senza rovinare l’appetito. Il Delizia certamente non disdegna i primi piatti.

     

     

     

    Davide Comoli