Curiosità Archivi - Pagina 6 di 13 - Vinarte
  • Sicilia, isola del vino

    Bacco giramondo – Dai Catarratti, bianco comune, al Nero d’Avola, principe indiscusso –1a parte

    È di certo un posto di primo piano quello occupato dalla Sicilia quando si parla di radici della viticoltura europea. La storia delle diverse dominazioni in questa terra è continuamente intrecciata con la presenza della vite e la preparazione dei vini.

    Intorno al 1860 sulle falde dell’Etna furono trovate alcune viti di tipo ampelide di un’era geologica assai antica, l’era terziaria; segno di una antica predisposizione di una terra dove la vite cresceva spontaneamente.

    Fenici, Greci, Romani, Bizantini, per secoli hanno contribuito a far conoscere il vino e la vite della Sicilia nel mondo allora conosciuto. Agli audaci navigatori Fenici, spetta il primato della commercializzazione dei vini siciliani, facendone uno dei prodotti principali per gli scambi commerciali dell’epoca.

    Sicuramente erano vini dolci come sta scritto in un frammento di «orcio» ritrovato nei pressi di Gela e risalente a 1600 anni a.C., su cui troneggia la seguente iscrizione «Vino fatto con uva passa nera».

    Intorno al VII sec. a.C. i coloni Greci introdussero il sistema di coltivazione ad «alberello» e i siciliani divennero esperti conoscitori delle tecniche di coltivazione non solo della vite, ma anche dell’ulivo e del grano. Nota è la predilezione di Giulio Cesare per il Mamertino (l’odierno Catarratto Bianco); tra i vini che arrivavano sulle tavole della Roma repubblicana e imperiale, citiamo il Taormino Bianco, lodato da Plinio e prodotto con l’antenato dell’odierno Inzolia e con Minnella Bianca.

    L’avvicendarsi di culture diverse nei secoli successivi portò a uno sviluppo a fasi alterne della viticoltura nell’isola, dai Musulmani che azzerarono la produzione del vino, ai Normanni che finirono col portare all’estirpazione delle viti per l’eccessiva tassazione, sino ad arrivare agli Aragonesi e agli Spagnoli, che riportarono sia l’agricoltura sia la viticoltura sulla via dello sviluppo.

    Va comunque agli Inglesi, il merito di aver favorito la produzione vinicola siciliana. I movimenti della flotta inglese durante il periodo napoleonico permisero infatti il sorgere della grande industria enologica siciliana, incentrata intorno alla produzione del Marsala.

    La Sicilia è la maggiore isola del Mediterraneo con 26mila kmq suddivisi in un territorio prevalentemente collinare (61,5 per cento) e montuoso (24 per cento). Il clima è mediterraneo sulle coste, continentale all’interno e a tratti addirittura alpino nelle zone vinicole dell’Etna e nelle colline delle Madonie.

    Nel massiccio dell’Etna i suoli formati da sgretolamento della lava, ceneri e sabbie sono ideali per il Nerello e il Carricante, mentre nella zona Sud-Est i terreni tufacei, con sedimenti calcarei sono ideali alla coltivazione del Nero d’Avola. Le isole di Pantelleria ed Eolie, sferzate dai venti di Scirocco e Maestrale, vantano terreni ricchi di tufo grigio di matrice vulcanica, dove dominano i profumati Moscato d’Alessandria e Malvasia delle Lipari.

    Con i suoi 103,5 mila ettari vitati, la Sicilia è la regione italiana con la più ampia superficie vitata; da notare che ben 16mila ettari sono vitati a «coltura biologica».

    L’interazione tra le culture ellenica, araba, sveva, normanna ha portato nel corso dei secoli a una ricca gastronomia, che si abbina ai molteplici vini prodotti in loco; ci riserveremo quindi di far conoscere le zone viticole e le specialità locali con il prossimo numero della nostra rubrica.

    I sistemi d’allevamento più diffusi sono il «cordone speronato» e il «guyot», mentre l’antico e tradizionale «alberello» ricopre oggi solo il 10 per cento del territorio.

    Oggi il 21 per cento del territorio vitato è occupato da vitigni internazionali che danno ottimi prodotti, ma quando parliamo di Sicilia, amiamo parlare di vitigni «autoctoni» che ci fanno capire meglio l’anima del territorio. Le varietà più coltivate sono i Catarratti e il Nero d’Avola.

    I Catarratti bianco comune, lucido ed extra lucido, sono i più diffusi (32 per cento), grazie alla loro facilità di coltivazione e perché con pochi problemi raggiungono un ottimo grado di maturazione, donandoci vini molto interessanti di buona acidità, con un discreto contenuto alcolico e un buon corredo aromatico.

    Antico vitigno è l’Inzolia (Ansonica), che dà origine a vini semplici, ma spesso usato in uvaggio con lo Chardonnay. Il Grillo è invece un vitigno ottenuto da un incrocio tra il Catarratto Bianco e lo Zibibbo; a fine 800 ha contribuito molto alla ricostruzione post-filossera: si ottengono vini di grande spessore con un notevole bagaglio olfattivo.

    Il Grecanico, già descritto in alcuni documenti del 1696, ha un curioso aroma che potrebbe essere definito di lunga evoluzione, perché si riescono a percepire sentori di cioccolato bianco e meringa.

    Il Moscato Bianco o Zibibbo coltivato a Pantelleria, è stato forse portato dai Fenici e ci viene da chiedere una sola cosa: chi non conosce il Passito di Pantelleria?

    Nelle isole Eolie, su 90 ettari viene coltivata la deliziosa Malvasia delle Lipari, da bersi in versione Spumante, Naturale o Passito. Mentre il Frappato è un vitigno a bacca rossa che, in purezza, dona vini beverini, ma in uvaggio con altri rossi dà un vino piuttosto austero.

    Il Nerello Mascalese è originario della piana di Mascali: questo vitigno ha trovato la sua terra d’elezione nello straordinario territorio vulcanico dell’Etna. Sui ripidi pendii vulcanici, allevato ad «alberello» e sostenuto da pali di castagno (l’antica «vinea»), a volte con viti a «pied-franc», dona vini di straordinaria eleganza.

    Il vero principe incontrastato dei vini siciliani è tuttavia il Nero d’Avola, coltivato a memoria d’uomo ad «alberello»; ha sempre prodotto vini molto alcolici, superando senza problemi il 15 per cento di alcol. Oggi, al contrario, si cercano vini più freschi d’acidità e meno caldi, con tannini setosi e grandi potenzialità d’invecchiamento.

    Tra le varietà internazionali citiamo infine: lo Chardonnay, il Syrah, il Merlot e il Cabernet Sauvignon che dona vini molto longevi.

    Scelto per voi

    Fontanasanta Manzoni Bianco
    Il Manzoni Bianco è un incrocio tra Pinot Bianco e Riesling Renano, creato alla Scuola Enologica di Conegliano negli anni Trenta.

    Il Fontanasanta che vi proponiamo è prodotto a Mezzolombardo (TN), da quella grande donna del vino che risponde al nome di Elisabetta Foradori: la donna che ha fatto conoscere al mondo il Teroldego.

    Da più di una decina d’anni, Elisabetta ha progressivamente riconvertito i suoi vigneti in coltivazione biodinamica (il Fontanasanta ha la certificazione Demeter e TripleA) e da qualche tempo sta sperimentando la vinificazione in anfore.

    Dal colore giallo paglierino intenso, il Fontanasanta ha un profilo olfattivo particolare con richiami di frutta a polpa bianca, soprattutto la mela renetta, profumi floreali, note d’infuso di zenzero e tè verde, con un finale minerale. È questo un piacevolissimo vino d’aperitivo che può accompagnare tartine al formaggio fresco, verdure grigliate, primi piatti con sugo di pesce.

    / Davide Comoli

  • Gli Etruschi, abili commercianti

    Vino nella storia – La via della cultura enologica parte dalla Toscana per arrivare ai confini del Ticino e oltre

    Il popolo degli Etruschi sviluppò la sua civiltà fra il IX secolo a.C. e il secolo I d.C. Durante questi secoli ha avuto, a proposito di vino, un ruolo particolare.

    I frequenti contatti con i commerciati Fenici e Micenei, furono molto importanti per lo sviluppo delle loro conoscenze nel campo dell’enologia.

    L’attuale Toscana era il centro della società etrusca, una civiltà di persone intraprendenti tanto da fortemente espandere la propria influenza, fondando molte città sia al sud, sia nella pianura padana, sino a raggiungere le Alpi.

    Testimonianze storiche e archeologiche attestano che furono gli Etruschi a far conoscere il vino e la viticoltura alle popolazioni dei Celti e a quelle del nord Italia.

    Peraltro, come dimostrano gli studi di Emilio Sereni, la vite selvatica era attestata un po’ ovunque, nella Cisalpina, come dimostrano parecchi ritrovamenti dal Neolitico all’età del Bronzo, ma che di certo non poteva elevarsi nella produzione di una bevanda fermentata, come molto probabilmente lo erano le bacche di corniolo, le more di rovo e il sambuco.

    È in ogni caso possibile, grazie ai vari ritrovamenti, pensare che nelle zone dell’alto Adriatico, grazie ai commerci con i Greci in tarda età del Bronzo, sia stato incoraggiato l’utilizzo, per quanto marginale, di una selezione di uve selvatiche locali a scopo alimentare.

    Con l’inizio dell’età del Ferro, soprattutto dopo l’VIII secolo a.C., ci fu come dicono i climatologi, il passaggio dal periodo climatico subboreale a quello subatlantico. Il conseguente miglioramento della temperatura ha favorito la diffusione della viticoltura, l’ingentilimento dei vitigni, la scoperta di nuove metodologie della coltura della vite, evoluzione il cui merito è assegnato da tutti gli studiosi concordi agli Etruschi.

    La forma di coltivazione della vite, caratteristica dell’area sotto l’influenza etrusca, era quella delle viti maritate agli alberi, ovvero all’arbustum gallicum, come scrivono Plinio (nella sua opera Naturalis Historia) e Varrone (nella sua De Re Rustica), in modo che il sostegno vivo non mortificava il vigore vegetativo della pianta.

    L’importanza dell’arbustum gallicum e il suo ruolo nella costruzione del sistema viticolo Cisalpino sopravvivono nella toponomastica in denominazioni moderne, vedi: Narbosto nell’Oltrepò presso Casteggio e in Arbostora, il monte che dall’Alpe Vicania scende verso Morcote.

    Nell’Italia Cisalpina, Plinio (N.H. XVII 212,23) segnalava la diffusione di un albero chiamato Opulus Rumpotinus sul quale la vite si appoggiava. L’etimologia di Rumpotinus porta a «rumpus», tralcio, e «teneo», verbo che significa sostegno. L’albero più usato come «marito» sostegno della vite, soprattutto nella Padana centrale era il Populus nigra (pioppo nero).

    Questo ci ricorda che il nome della divinità etrusca corrispondente al greco Dioniso, era Fufluns/Fufluna da cui Pupluna (Populonia), era connessa in modo stretto al nome latino del pioppo (populus). Il richiamo a Populonia non è quindi accidentale se consideriamo il grande rapporto del popolo etrusco con l’area padana e l’area golasecchiana, situata all’uscita del fiume Ticino dal lago Maggiore, come attestano le grandi anfore vinarie etrusche ritrovate a Castelletto Ticino, dove viene confermato l’uso delle vie fluviali per il trasporto del vino. La presenza etrusca nell’area del Ticino è quindi fortemente comprovata sul nostro territorio. O come scrive il professor Filippo Maria Gambari nelle sue imperdibili riflessioni racchiuse nel testo intitolato Le origini della viticoltura in Piemontela Protostoria (in Vigne e vini nel Piemonte Antico, a cura di Rinaldo Comba, di cui consigliamo la lettura a tutti gli appassionati) – dalle cui fonti storiche abbiamo attinto – la diffusione della viticoltura intorno al lago Maggiore, avvenne all’incirca mentre a Roma regnava Tarquinio Prisco, re etrusco.

    Di certo è che il commercio del vino era una delle principali fonti di reddito delle città etrusche. Il commercio, per via marittima o fluviale, si estendeva nella Gallia Meridionale, lungo il Rodano, nella Renania, in Austria. Il vino era parte integrante della vita sociale degli Etruschi, ne sono testimoni i loro usi conviviali e le loro espressioni artistiche.

    Dai loro commerci nel sud della Francia, luogo dove l’irradiazione greca era molto forte, gli Etruschi portarono anche un nuovo sistema d’allevamento della vite, quello della vinea cioè con il sostegno morto, che portò a un graduale arretramento dell’arbustum stesso, favorendo una coltura specializzata. Ma per molti secoli il sistema arbustum per la coltivazione della Vitis labrusca o meglio la vitis agrestis continuò, allevata come scrive Virgilio «in labris et extremitatibus terrae» cioè ai margini dei campi, maritata a pioppi e olmi, che ancora oggi danno un’impronta speciale al paesaggio agricolo di parte della vicina Penisola.

    Agli Etruschi inoltre viene attribuita l’introduzione di alcuni vitigni a bacca nera, oggi presenti sui nostri territori. La raetica, che potrebbe essere uno di quei vitigni esclusivi che vanno dal centro-orientale delle Alpi al Vallese, e quello che Plinio, in seguito, chiamerà «gallica» o «spioria», di cui lo spazio tiranno ci impedisce di raccontarvi la storia, ma che «quasi» sicuramente s’identifica con il Nebbiolo.

    Fu sempre il vino, forse l’antenato del Sangiovese, contenuto nelle anfore a far muovere dalle nebbie padane i Galli che avrebbero «più tardi» causato la terribile «Clades Gallica» e cioè il crollo dell’Urbe. Su questo argomento però si apre un giallo storico: secondo Plinio (23-79 d.C.), fu un Elicone fabbro degli Elvezi emigrato a Roma, che tornando in patria avrebbe fatto conoscere al suo popolo il vino e le ricchezze mediterranee; secondo Livio (59 a.C.-17 d.C.), invece, fu un certo Arrunte cittadino di Chiusi (l’antica Chamars etrusca) che per vendicare l’oltraggio subito dalla moglie di Lucumone agendo contro la sua città, attrasse con il vino le popolazioni Cisalpine. Comunque, al di là della marcata tendenza anti-etrusca che qualcuno può avere, noi da bravi insubri, siamo grati a questo popolo per il bel dono che ci ha fatto conoscere.

    Scelto per voi

    Marc Hebrart Rosé
    I terreni dello Champagne sono una specie di cocktail geologico che si è creato in seguito a una serie di movimenti tellurici risalenti a circa 70mila anni or sono.

    Risalendo la Marna da Épernay, dopo circa una decina di chilometri vi troverete a Mareuil-sur-Aÿ, dove ha sede la maison Marc Hebrart nel cuore di quel territorio vocato per la produzione dei grandi cru. Terreni che danno vini di grande impatto e struttura, vini longevi, che con l’affinamento esprimono una vasta gamma di profumi maturi ed evoluti.

    Il Marc Hebrart da noi provato è uno champagne molto elegante, dai delicati profumi di frutta rossa e sentori floreali. Ci ha quindi piacevolmente stupito per la sua complessità e il suo equilibrio dato dal 55% di Chardonnay (eleganza), 38,5% Pinot Nero (forza) e mai provato prima, dal 6,5% di Mareuil Rouge, un rosso prodotto con Cabernet Franc, Négrette, Pinot Nero e Gamay, che dona freschezza e vivacità a questo prodotto: ve lo consigliamo come accompagnamento a tutto pasto per festeggiare San Valentino.

    / Davide Comoli

  • I grappoli dell’Umbria

    Vino nella storia – Il «cuore verde d’Italia» possiede una tradizione vitivinicola di grande qualità e prestigio

    Completamente circondata da Lazio, Marche e Toscana, la regione Umbria è da tempo denominata «il cuore verde d’Italia», grazie alla sua conformazione prevalentemente collinare e montana, alla sua ricchezza di boschi e di acque, ai suoi terreni in prevalenza calcarei e argillosi, che ospitano da tempo immemorabile tra le colture agricole, la vite e l’olivo.

    La regione più collinare d’Italia è separata da rilievi appenninici orientali, dai subappenici più bassi, dalle valli Tiberina e Umbra e dal monte Redentore (2449 m). Le poche pianure sono situate dove c’erano antichi laghi colmati poi da depositi alluvionali. Il fiume principale è il Tevere che attraversa la regione per 210 km, i suoi affluenti sono a destra il Paglia e il Nestore, a sinistra il Nera e il Chiascio, senza dimenticare il lago Trasimeno (quarto lago in Italia per estensione), con una profondità massima di 6 m.

    Qui la coltura della vite risale ad epoche antiche: lo testimoniano i moltissimi reperti rinvenuti nelle tombe etrusche, da dove sono stati portati alla luce stupendi vasi enoici.

    Il popolo Etrusco, già presente nel VII sec. a.C. in questa regione, rivolse cure particolari alla coltivazione della vite, usando il «sacro» nettare nei riti religiosi e soprattutto come conforto per il lungo viaggio che ci aspetta dopo la morte.

    Con sorpresa, al loro arrivo (non pacifico), i Romani scoprirono una popolazione, i locali Umbri e i sopraccitati Etruschi, già abituati a godere del succo dell’albero della vite.

    Virgilio e Plinio confermano con i loro scritti la presenza delle uve Apinae dalle quali si otteneva un vino dolce, parlano pure del Murgentina, molto diffuso a Chiusi, ma d’origine campana, come pure del Tudertis diffuso a Todi.

    In Umbria furono particolarmente attivi gli ordini monastici, dei quali, possiamo senza dubbio affermare che furono i salvatori della viticoltura in tempi bui, grazie ai seguaci di San Benedetto da Norcia ed ai Cistercensi. Sarà la brillante penna di Sante Lancerio (1548) antesignano dei moderni sommelier, che annoterà i vini di questa regione al seguito di papa Paolo III Farnese.

    Passeranno quasi 50 anni prima che A. Bacci dia ampio spazio alla vitivinicoltura dei vini umbri, dove la parte del leone la fa giustamente il vino di Orvieto, già allora imbottigliato in fiaschetti di paglia.

    Il vigneto umbro copre prevalentemente in collina una superficie di ca. 13’000 ettari, il vitigno emblema di questa regione, presente quasi esclusivamente nella zona di Montefalco, è il Sagrantino.

    Sembra che questo vitigno sia la naturale mutazione dell’antico vitigno Hitriola di cui già parlava Plinio il Vecchio, scrivendo dei vini di Bevagna.

    Il Sangiovese entra in purezza o nella composizione in quasi tutti i vini D.O.C. prodotti nella regione. Piuttosto apprezzato nella zona per la sua vinosità, per i suoi profumi di marsala e i tannini leggeri è il Ciliegiolo, mentre, usato soprattutto in assemblaggio perché offre un buon tenore alcolico, è il Canaiolo Nero. Il Montepulciano e il Gamay, trovano un ambiente pedoclimatico ottimale nella zona di Terni e del lago Trasimeno.

    L’autoctono Grechetto (l’antico Greco di Todi), è il vitigno più caratteristico a bacca bianca della regione: il Trebbiano Toscano vino di buona acidità, è normalmente usato nella composizione dei bianchi locali, ma anche vinificato in purezza dà una vino con buona struttura.

    Nelle colline a meridione trova il suo sito ideale la Malvasia Bianca, mentre il produttivo Verdello entra nella composizione di numerose denominazioni.

    Anche qui sono presenti il Merlot, il Cabernet Sauvignon, usati per i famosi tagli bordolesi, lo Chardonnay e il Sauvignon Blanc, il quale ben si presta alla produzione dei «muffati».

    Sei sono le zone in cui è divisa l’Umbria vitivinicola. Arrivando dalla Toscana troviamo il lago Trasimeno con le sue colline, ideale per i vini rossi. Consigliamo in particolare il locale Gamay: recenti studi lo ricollegano alla Grenache, quindi non è il vitigno che si trova nel Beaujolais; assolutamente da provare con le famose anguille alla brace, piatto locale. Proseguendo verso sud si arriva nella zona dei Colli Perugini, dove troviamo le D.O.C. Assisi, vini di grande struttura. Proseguendo si entra nell’area di produzione di Torgiano: la viticoltura in questa zona risale addirittura all’epoca etrusca, il Torgiano Rosso Riserva D.O.C.G. è il fiore all’occhiello, prodotto soprattutto con il Sangiovese; grazie alla lenta evoluzione per almeno 3 anni, crea complessi aromi: vino di grande struttura, ottimo con i colombacci allo spiedo (non dimenticate di visitare il Museo del vino, presso una nota cantina). La terra umbra è ricca di pregiati tartufi raccolti nella Valnerina, nelle vicinanze di Spoleto, dove il Trebbiano la fa da padrone: profumi di fresche erbe aromatiche fanno di questo vino l’ideale compagno della classica pasta e fagioli o di una zuppa di legumi profumata al tartufo nero.

    L’esteso comprensorio di Orvieto rappresenta circa la metà della produzione regionale, situata ai confini del Lazio, condivide la D.O.C. Ottenuti principalmente con Grechetto, Trebbiano, Verdello, Malvasia e raramente anche Chardonnay, troviamo vini bianchi ben strutturati, piacevolmente minerali. Presso il piccolo lago di Corbara, con uve attaccate dalla «Botrytis Cinerea», scopriamo la preziosa tipologia Muffa Nobile, da provare con un pecorino stagionato dell’altopiano del Subasio.

    Nei dintorni di Todi troviamo i terreni più vocati per la produzione del Grechetto, da bersi con le trote pescate nel Clitunno, cotte alla griglia.

    Prodotto fino agli anni 70 solo come vino dolce, il Sagrantino è riuscito ad imporsi a livello mondiale come grande vino da evoluzione e da abbinare a piatti strutturati.

    Vitigno a maturazione tardiva, attenua la sua tannicità prima in vigna e poi in cantina, il Montefalco Sagrantino D.O.C.G. può essere prodotto solo nel comune omonimo e parte nei comuni di Bevagna, Gualdo Cattaneo, Castel Rinaldi e Gianno d’Umbria, tutti in provincia di Perugia.

    Scelto per voi

    Sasso Chierico
    Sui 7 ettari di proprietà della famiglia Antognini, situati nel comune di Gudo, sulla sponda destra del fiume Ticino, vengono allevate le viti di Merlot, alcune delle quali vecchie di più di 40 anni. Qui i vecchi ceppi penetrano nel terreno fino a 130 cm di profondità: siamo in presenza di un suolo molto adatto alla viticoltura, con terreni medio leggeri, ricchi di materia organica, acido e non calcareo. Nella sua passione per la viticoltura, Giovanni Antognini è affiancato dal valente enologo Michele Conceprio: insieme hanno prodotto e vinificato questo stupendo Merlot del Sopraceneri.
    Con il suo colore rubino granato intenso, molto speziato al naso, con note vanigliate e accenni erbacei, note di mirtillo, caldo, morbido e tannini diffusi con una sorprendente lunga persistenza, il Sasso Chierico è l’ottimo compagno non solo per i piatti strutturati di questa stagione, ma lo pensiamo anche come partner ideale per la cucina tradizionale della nostra Regione.

     

    / Davide Comoli

  • Venere e Bacco in armonia

    Vino nella storia – Il filosofo Platone ha indicato il forte legame tra l’amore e i frutti della vite, unione che viene cantata tra l’altro anche nell’Antologia palatina

    Per Platone, son le Muse ad infondere una sorta di «furore», che però essendo una forza liberatoria, egli non esita a definire di «ispirazione bacchica». Al filosofo ateniese va riconosciuto il merito di aver indicato l’originario vigore liberatorio del vino: con lui Dioniso ritorna ad essere il dio della spontaneità.

    È fuori discussione che in un’ipotetica sfida la quale avesse come tema una sorta di «esegesi» bacchica e coinvolgesse i maggiori interpreti delle virtù di Dioniso, Platone, il vecchio aristocratico filosofo ateniese, guadagnerebbe la palma della vittoria.

    L’opera di Platone consta di 34 dialoghi divisi in quattro gruppi: tra i principali Simposio e Repubblica, a cui vanno aggiunte tredici lettere, dove sono affrontati problemi di etica, circa il conseguimento della virtù, definita come sapienza e pertanto insegnabile. Nel complesso di orientamenti filosofici derivati da Platone e professati nella scuola da lui fondata, «l’Accademia», troviamo nella «dottrina dell’eros» (amore) la scintilla che fa accendere la lampadina per il nostro pezzo.

    Al di là di ogni ragionevole dubbio è accertato che il vino predispone l’animo e il corpo ai piaceri di Venere. Come afferma infatti il filosofo, il vino ha la capacità di far diventare manifesta la parte che è latente in ogni uomo.

    Questa tesi sarà sostenuta fortemente qualche secolo dopo da Ovidio, poeta latino (Sulmona 43 a.C.-. Tomi, M. Nero 17 d.C). Nella sua Arte amatoria scrive: «Varietà di vini predispongono i cuori e li rendono pronti alle passioni ardenti; cede ogni grave pensiero e si stempera fra le molte libagioni. Allora si fa strada l’allegria, allora il povero assume fierezza, allora sparisce il dolore, nonché l’ansia e le rughe dalla fronte. Allora la spontaneità, così rara al tempo nostro, discopre i pensieri, perché il dio mette bando alle finzioni. Quivi belle donne catturano cuori di giovani: fra i vini Venere vuol essere fuoco su fuoco».

    Dioniso e Eros, vino e amore furono il binomio che ispirò buona parte della poesia di Anacreonte (570-485 a.C.), poeta che mai trascende nella volgarità. La sua poesia resta sempre misurata e castigata. L’Amore è il tema dominante nei suoi versi: Anacreonte non ha esitazione a usare il vino al servizio di questo sentimento, e dal momento che durante il «symposion» c’è spazio anche per l’amore recita: «Porta l’acqua, porta il vino ragazzo e portami corone di fiori che voglio fare a pugni con Eros».

    L’Antologia Palatina, è una raccolta di libri (XV) in cui sono raccolti ben 3700 componimenti per lo più brevi, detti «epigrammi» dai vari contenuti, molti di questi sono inviti alla gioia e confidenze d’amore.

    L’eccezionale scoperta avvenne nel 1607 in un codice del XI sec. conservato presso la Biblioteca Palatina, nella città di Heidelberg (Germania) e gli autori sono più di 300 poeti greci, distribuiti in un arco di tempo di oltre 1000 anni dal IV sec. a.C. alla tarda età bizantina.

    Gli epigrammi che vogliamo proporvi, vogliono fornirvi una testimonianza dell’importante ruolo del vino nella poesia greca di questo periodo, dove il nettare sacro a Dioniso è quasi sempre messo al servizio dell’Amore.

    Il primo dei poeti che abbiamo scelto è Asclepiade (Samo 310 a.C.), 45 sono gli epigrammi di argomento amoroso e d’intonazione pessimistica che lo collocano tra i maggiori poeti della sua epoca: «Il vino è la spia dell’amore. Negava di essere innamorato, Nicàgora, ma i brindisi lo hanno smascherato. Piangeva, con la testa tremante e lo sguardo abbassato. Mentre la ghirlanda lentamente gli scivolava dal capo».

    Solo attraverso l’Antologia Palatina è stato possibile conoscere uno dei grandi della poesia greca, Melandro (140 ca. Gadara oggi Umm Qeih – Palestina) ecco uno dei suoi 134 epigrammi: «La coppia esulta di gioia perché ha toccato la garrula bocca di Zenofila, amica dell’amore. Felice lei! Oh, se ora accostando le sue labbra alle mie mi bevesse d’un fiato l’anima».

    Il ciclo di maturazione dell’uva, diventa metafora delle fasi di un rapporto amoroso, che tuttavia l’Autore Anonimo vorrebbe in qualche modo concretizzare: «Grappolo acerbo, non m’accettasti. Grappolo maturo, passasti oltre. Non rifiutarmi, ti prego, qualche chicco di uva passa».

    Di Rufino, un altro poeta dell’Antologia Palatina, del quale ignoriamo sia il luogo di nascita sia dove è vissuto, per qualcuno va collocato alla fine del I sec. d.C.: in questo epigramma il poeta propone il vino come rimedio alle fuggevoli gioie della vita: «Facciamo il bagno, Prodice. Incoroniamoci e tracanniamo vino puro (àcraton) levando le grandi coppe. Breve è la durata delle gioie. Poi, per il resto del tempo ce le proibirà la vecchia e, alla fine, la morte».

    Sempre di Rufino il seguente epigramma dimostra quanto sia potente l’alleanza tra Dioniso e Eros, quando vogliono vincere sulla Ragione umana: «Ho una robusta corazza per difendermi: la Ragione, e il grande Eros, uno contro uno, non mi piega. Uomo contro dio: e tuttavia gli resisto. Se però chiama Bacco a sostenerlo, io da solo contro due, come faccio?».

    Vorremmo chiudere con un brano che a noi piace molto, è forse il più bel complimento che si possa fare alla donna di cui si è innamorati: l’autore è Macedonio Console, pare nato a Salonicco (l’antica Tessalonica) e vissuto intorno al VI sec. d.C. «Durante la vendemmia, cogliendo il grappolo nessuno straccia anche i viticci. Te, amor mio dalle rosee braccia, te stringo a me, in morbidi amplessi e faccio una vendemmia d’amore. Non so aspettare un’altra primavera né un’altra estate, tanto tu sei colma di grazie! Possa il tuo fiore non sfiorire mai: ma se spunterà qualche ribelle viticcio di rughe, non lo vedrò, perché ti amo».

    Scelto per voi

    Petit Vignoble AOC Yvorne
    Fondata nel lontano 1902 la «maison» Henri Badoux (il fondatore), è ancora oggi saldamente nelle mani dei discendenti.
    La proprietà con sede a Aigle (VD), s’estende per ca. 55 hettari vitati, ma sono ben 105 gli ettari che questa azienda vinifica nelle sue cantine, con uve provenienti oltre che da Aigle da Yvorne, Ollon e Villeneuve, comuni situati nel cuore dello Chablais, dove l’influenza del lago Lemano e delle Alpi permettono un’ottima maturazione delle uve. Qui naturalmente il vitigno Chasselas è il principe e l’indiscusso ambasciatore dei vini svizzeri.
    Il Petit Vignoble che vi proponiamo questa settimana è coltivato sulle morene (argillo-calcaree) che ci ha lasciato la glaciazione del Rodano 10’000 anni fa nel comune di Yvorne; è un eccellente vino per tutte le occasioni, secco, abbastanza fruttato e notevoli note minerali, fanno dell’Yvorne un ottimo aperitivo o come accompagnamento a parecchie preparazioni culinarie, in particolar modo alla «raclette» e alla «fondue al formaggio».

    / Davide Comoli

  • La tradizione dei vini d’Abruzzo

    Bacco giramondo – Dalla provincia di Teramo alle nuove denominazioni comunali come Ortona, Villamagna e Tullum

    L’Abruzzo, definita «Regione verde d’Europa» per la presenza di numerose riserve naturali e Parchi Nazionali, è altamente vocato alla viticoltura grazie alle sue condizioni climatiche. Dal punto di vista territoriale (l’Abruzzo consta di 10’795 km2) è occupato dal 65 per cento di montagne, mentre il restante 35 è composto da colline, quindi non ha una vera pianura. I massicci della Maiella e del Gran Sasso salgono sino a sfiorare 3000 metri slm e, per la loro collocazione poco distante dal mare, influiscono in maniera determinante sulla situazione meteorologica, determinando un clima ventilato con forti sbalzi termici tra giorno e notte, tra estate e inverno.

    In una situazione ambientale di questo genere, è comprensibile che la viticoltura sia divenuta, con l’andar del tempo, l’attività principale della popolazione agricola, che attraverso la coltura vinicola ha potuto tramandare e consolidare le proprie tradizioni. Che il binomio Abruzzo/vino sia consolidato da tempo, ci viene confermato dalla storia, e infatti recenti studi fanno risalire all’età del ferro le prime colture viticole e la produzione del vino in questa regione.

    Successivamente gli Etruschi introdussero la coltivazione nazionale della vite tra il VII-VI sec. a.C., insegnando ai locali il sistema di maritare agli alberi la vite.

    Narra la storia che Annibale, prima della tremenda battaglia di Canne (216 a.C.) riuscì a far guarire i cavalli del suo esercito malati di scabbia lavandoli con il vino prodotto dai Marsi e dai Sanniti; rimessa in sesto la sua cavalleria, riuscì a imporsi in quella che per Roma fu una delle più cocenti sconfitte.

    In epoca augustea, l’abruzzese poeta Ovidio, nel suo capolavoro Le Metamorfosi, descrive i vigneti della Valle Peligna, esaltandone la bellezza, rievocando il vincolo che lega l’olmo alla vite per descrivere le sue pene amorose, e definendo questa sua terra «ricca del dono di Cerere e ancor più feconda di uve».

    Il vino «Preturia», considerato dai Romani come un «grand cru», viene più volte citato da Plinio il Vecchio. Da Marziale invece abbiamo conferma che i vini abruzzesi venivano serviti sulle mense di Roma, mentre dal medico Dioscoride sappiamo che di questi vini si faceva largo commercio lungo le coste Adriatiche.

    Dopo un periodo buio, con il sorgere e diffondersi del monachesimo, la vite ritornò a fiorire, ma poco e nulla sappiamo di quello che accadde sino al Rinascimento: saranno il domenicano Serafino Razzi e l’autorevole Andrea Bacci che tracceranno un quadro della vitivinicoltura del tempo (XVI sec.). Sappiamo che alla fine del XIX sec. il patrimonio ampelografico era considerevole, ma all’inizio del Novecento arriva il flagello della filossera.

    Oggi l’Abruzzo conta circa 32mila ettari vitati, la maggior parte d’allevamento è quello della pergola abruzzese.

    Indiscusso protagonista del panorama ampelografico della regione è il Montepulciano (da non confondere con il toscano Vino Nobile), vitigno molto versatile che dà un vino dal colore rosso granato che può essere bevuto giovane o dopo lungo affinamento; può essere usato per produrre anche spumanti, ma vi consigliamo di provare il profumatissimo Cerasuolo rosato, prodotto dal Montepulciano d’Abruzzo.

    Il Trebbiano Toscano e il Trebbiano Abruzzese sono i due vitigni che per anni hanno rappresentato la base per la produzione di tutti i vini bianchi della Regione. Dalla fine degli anni Ottanta però c’è stata una riscoperta che ha riportato in auge i vitigni autoctoni bianchi di cui si era quasi persa la memoria: il Pecorino, la Passerina, la Cocciola e il Montonico, vinificati in purezza; seppure ricoprono solo il 5% della produzione, hanno conquistato (anche per il prezzo) una bella fetta del mercato non solo nazionale.

    Provenendo dalle Marche, incontriamo la provincia di Teramo, con le sue dolci colline attraversate dai fiumi Salinello, Tordino e Vomano; qui il Montepulciano d’Abruzzo esprime al meglio le sue peculiarità, ottenendo l’unica D.O.C.G. della regione Colline Teramane. Vino ricco di sfumature ottenute dopo lunghi periodi passati nel legno, il Montepulciano d’Abruzzo D.O.C.G. è l’ottimo compagno per un piatto tipico come il Gnemeridde, frattaglie d’agnello e capretto ridotte a strisce e rinserrate in gomitoletti, donde il nome, infilzate nello spiedo o soffocate in padella con olio, cipolla, pomodoro e formaggio pecorino.

    In provincia di Teramo anche la Passerina e il Pecorino danno vini freschi e fruttati, di buona struttura e alcolicità, ottimi con i piatti di pesce del prospiciente Adriatico. In alcuni comuni della zona trovano spazio anche taluni vitigni internazionali che si esprimono in vini monovarietali con denominazione controversa.

    Scendendo verso sud, troviamo la provincia di Pescara, suddivisa in due zone vinicole, Terre dei Vestini e Terre di Casauria. Questi terreni vocati alla viticoltura, esposti a forti escursioni termiche dati dalle brezze marine, permettono al Trebbiano d’Abruzzo di produrre vini bianchi strutturati; da provare se passate da Castiglione di Casauria, e se siete fortunati, il particolare Moscato Passito da bersi intingendo i tipici taralli.

    Nell’interno, i vigneti hanno una produzione piuttosto limitata. La Valle Peligna, in provincia dell’Aquila, si trova ai piedi della Maiella e del Sirente-Velino, in una conca denominata Terre dei Peligni. Qui si produce un elegante Montepulciano, come nella zona dell’Alto Tirino, dalle esposizioni più soleggiate, dove con lo stesso vitigno si producono ottimi rosati dai deliziosi profumi di frutti di bosco: non esitate quindi a provare il Cerasuolo con il famoso brodetto abruzzese di pesce.

    La provincia di Chieti (confinante con il Molise), è considerata il gigante dell’enologia abruzzese, legata soprattutto alle grandi cooperative che per anni hanno fornito Montepulciano Trebbiano al mercato globale, sfuso o in bottiglie di grossa capienza.

    Ai giorni nostri pur concentrando l’80 per cento della produzione regolare, stanno cercando di diversificare l’offerta valorizzando sia i vitigni tradizionali sia quelli internazionali. Sono nate così le denominazioni comunali come Ortona, Villamagna e Tullum.

    Scelto per voi

    R. Renaudin Réserve brut
    Épernay è la città francese dello Champagne per antonomasia. Vanta dorsali favorevoli alla viticoltura. All’uscita sud della D9 inizia la prestigiosa Côte des Blancs, dove dopo pochi chilometri troviamo il piccolo villaggio di Moussy. In questo luogo, fondata nel lontano 1724, troviamo la Maison R. Renaudin, un R.M. (Récoltant manipulant), un produttore custode nel tempo delle tradizioni, che vinifica e spumantizza le uve dei suoi vigneti. Poco conosciuto alle nostre latitudini, è comunque ben presente nelle maggiori guide internazionali.
    Dopo vari passaggi sia in acciaio sia in legno, senza malolattica, e il prolungato invecchiamento di 84 mesi sui lieviti, fanno del Renaudin Réserve lo Champagne per brindare al Nuovo Anno. Frutto di un assemblaggio di Chardonnay 70%, Pinot nero 15% e Pinot Meunier 15%, rappresenta l’eccellenza di questa Maison; il suo perlage fine e persistente esalta i profumi di crosta di pane e pasticceria lievitata (panettone) ed è invidiabile al palato la sua freschezza. Lo abbiniamo a tutto pasto con menu a base di pesce o carni bianche, ma se volete stupire i vostri ospiti, servitelo con schegge di Parmigiano Reggiano «asperso» di gocce di aceto Balsamico Tradizionale.

    / Davide Comoli

  • Alceo il simposiarca e Archiloco il guerriero

    Vino nella storia – Due cantori delle virtù del divin dono che Dioniso fece agli uomini, ma molto diversi tra loro

    Nel mondo greco, il senso dell’associazione era molto sentito: lo era dal punto di vista pubblico, privato, religioso e politico. Una tipica forma associativa fu «l’eteria» costituita fin dal V sec. a.C. I membri di questa associazione, o lega che dir si voglia, provenivano in gran parte, se non unicamente, dall’ambiente dell’aristocrazia. Essi si univano con un giuramento, sulla base della loro amicizia, di ideali politici e di affinità intellettuali. Dopo le loro cene e riunioni seguiva il simposio di cui abbiamo precedentemente scritto (v. Articolo del 16 novembre 2020).

    In questo ambiente nacque la poesia individuale. Il poeta eseguiva i suoi carmi davanti a un ristretto auditorio di amici. Tra i personaggi protagonisti di questi simposi – e delle cui opere magistralmente tradotte da maestri come Salvatore Quasimodo, Raffaele Cantarella, Gennaro Perrotta, fortunatamente ci sono giunti alcuni frammenti – abbiamo scelto Alceo di Mitilene e Archiloco, due cantori delle virtù del divin dono che Dioniso fece agli uomini, ma molto diversi tra loro.

    Alceo nacque a Mitilene, uno dei nuclei più importanti dell’isola di Lesbo, fertile di vigneti attorno al 630 a.C. e fu contemporaneo della poetessa Saffo, nella cui Tiaso – la comunità di educande da lei guidate, che onorava Afrodite dea dell’amore e della bellezza – il consumo del vino era un rito collettivo.

    Dai frammenti delle sue opere, pare che Alceo, oltre ad essere stato il miglior poeta/cantore della sua «eteria», fosse anche frequentemente eletto «simposiarca». I pochi versi superstiti a noi giunti sono molto significativi e possono insegnare alcune cose riguardanti la funzione e l’atmosfera dell’«eteria» nel VI sec. a.C. e sul ruolo esercitato dal vino nella poesia.

    Molti componimenti di Alceo trovano spunto nella vita politica. Ricco, alle volte arrogante, discendente da nobile famiglia, interamente immerso nella politica, subì ben tre condanne all’esilio in conseguenza alle sue scelte, e molti suoi contemporanei non mancarono di rimproverare il suo eccessivo amore per il vino. «Il vino, rivela l’animo dell’uomo» pare sia un pensiero espresso la prima volta proprio da Alceo, il quale riteneva che il «sacro licore» unisse gli uomini in un rapporto di solidarietà, quasi di complicità, certamente di fratellanza. Bere insieme mentre si discuteva di politica, riscaldava l’unità d’intenti, amalgamava il gruppo, preparava all’azione. Ad Alceo preoccupava soprattutto di contare su amici fidati, il vino viene appunto elogiato perché affratella nei sentimenti, inoltre «a Dioniso non si può mentire; Dioniso esige sincerità».

    Alceo fu un saggio estimatore del vino, di ciò ne siamo certi e lo confermano le sue poesie che sono un vero cantico alle virtù di questa bevanda. Una fausta ricorrenza la festeggiava, ad esempio, così: «Ora bisogna ubriacarsi e gagliardamente bere, poiché è morto Mirsilio». (N.B. Mirsilio era un suo acerrimo nemico politico). Un’infausta ricorrenza, invece, necessitava conforto in questo modo: «Non bisogna abbandonare l’animo alle sventure, perché nulla gioverà l’affliggerci; o Bacchis: ma farmaco ottimo è farsi portare vino e inebriarsi». Ancora oggi è valido il detto: «bevi che ti passa», non è forse vero che il vino aiuta a sopportare meglio le ambasce della vita?

    In uno dei frammenti di Alceo troviamo: «Beviamo, le lucerne perché attendiamo? Il giorno è solo un attimo. Prendi, amor mio le grandi bellissime coppe variopinte, il vino oblio dei mali, diede il figlio di Semele e di Giove ai mortali. Due parti mescola d’acqua, una di vino; riempi fino all’orlo il cratere. Ed una coppa spinga l’altra giù».

    Quasi contemporaneo ad Alceo, Archiloco (VII a.C.), fu spinto dalla povertà a emigrare nell’isola di Taso e a divenire un soldato mercenario. Figlio del popolo ed esempio di uomo libero. Di temperamento esuberante e passionale fu il cantore di poesie d’amore e di odio; si ritiene che sia l’inventore dell’efficace «metro giambico», passato alla poesia italiana attraverso quella latina, ripreso anche da Giuseppe Carducci.

    Archiloco, fa un mestiere decisamente anomalo per un poeta, è infatti un mercenario, ma da buon soldato sa che in fondo a dare sugo alla propria vita bastano poche cose: le sue armi, il cibo, il vino e il riposo. Un vino peraltro famoso proveniente dalle vigne di Ismaro, lo stesso vino che Ulisse fece bere a Polifemo. Quel vino sembra non abbandonarlo mai, lo accompagna in un campo di battaglia o sul ponte di una nave per una nuova avventura: «Orsù muoviti con la coppa tra le panche della veloce nave, stappa gli orci panciuti e mesci fino alla feccia il vino rosso». Dall’inebriante contenuto di quegli «orci panciuti» il poeta trae l’ispirazione per i suoi versi: «Io so come intonare il ditirambo. Il canto appassionato del mio Signore Dioniso, quando la mia mente è fulminata dal vino».

    Nei frammenti di Archiloco, Dioniso palesa la sua autentica natura; offrire in ogni momento dell’esistenza quale fido compagno dell’essere umano.

    Archiloco, consapevole della vita che gli spetta, non si riconosce nel rituale del simposio, ma si rivolge al dio del vino, con semplicità e umiltà. Nei versi del poeta/guerriero il vino non ha poteri liberatori, ma è semplicemente un ottimo companatico per il viver quotidiano: «Cenai con un piccolo pezzo di focaccia ma bevvi avidamente un’anfora di vino; ora l’amata cetra tocco con dolcezza e canto amore alla mia tenera fanciulla». Dopo una vita violenta, disordinata, avventurosa e piena di eccessi, concluse la sua esistenza ucciso in battaglia.

    Noi, non siamo moralisti e non biasimiamo l’ebbrezza che il vino può dare, e ammiriamo Archiloco perché mai la sua cetra fu prezzolata al decoro di casate nobiliari ansiose di rispecchiarsi.

    Scelto per voi

    Bucaneve Spumante
    Il Bucaneve, per chi ancora non lo sapesse, è stato il primo Merlot vinificato in bianco, e questa è stata di certo una svolta importante voluta dall’indimenticabile amico Adriano Petralli per la viniviticoltura del nostro Cantone.
    Quello che vi consigliamo oggi è però un passo successivo al Bucaneve classico, si tratta infatti, di un bianco di Merlot spumantizzato; un prodotto voluto dalla nuova gestione della CAGI di Giubiasco, che fu fondata nel lontano 1929. Usando il metodo Charmat, la rifermentazione del vino avviene in autoclave anziché in bottiglia, con tempi di rifermentazione più brevi, grazie alla quale si realizzano vini beverini.
    Il Bucaneve che oggi vi consigliamo ha un colore giallo trasparente con riflessi verdognoli. Presenta un fine perlage non troppo persistente e al naso arrivano fruttati accenti semplici di mela, pera e fiori bianchi, mentre in bocca è fresco, leggero di corpo e fragrante, con un finale gradevole senza troppe pretese. È l’ottimo vino per i nostri aperitivi di fine anno con i soliti stuzzichini.  Come tutti voi certamente sapete, il Bucaneve è anche il nome di un fiore, sinonimo di «speranza», che risorge dopo il duro inverno, ricordiamoci quindi di alzare bene i calici in modo scaramantico per brindare all’Anno Nuovo.

    / Davide Comoli

  • La lunga tradizione vinicola della Basilicata

    Bacco giramondo – Dalle terre vulcaniche di Vulture al Sasso di Matera

    La Basilicata – il cui nome deriva probabilmente da «basilikos» (dal greco «imperiale», «reale»), tant’è che durante la dominazione bizantina tra il IX-X secolo d.C. il termine stava a indicare il governatore locale – s’affaccia per una breve striscia costiera sul golfo di Policastro, mar Tirreno nei pressi di Maratea e a sud est sul golfo di Taranto bagnato dal mar Jonio.

    Il suo territorio ha una superficie di poco inferiore ai 10mila chilometri quadrati (9992), del quale il 46,8% è costituito da montagne, il 45,2% da colline, il restante 8% è pianeggiante. Confina a nord con la Campania e la Puglia, a sud con la Calabria.

    Il clima è prevalentemente continentale, nella zona collinare jonica del Metaponto, si alternano estati calde e secche, con una leggera ventilazione, a inverni miti e piovosi, clima ideale per vini bianchi molto aromatici, ma di media struttura.

    L’area collinare che degrada verso Matera, lungo la fossa bradanica, ricca di zone argillose e sabbie, dà origine invece a vini di grande complessità olfattiva e struttura come il Primitivo tra i rossi e il Greco tra i bianchi, mentre nel fondovalle, di origine alluvionale, troviamo terreni molto fertili che favoriscono la coltivazione di vitigni internazionali.

    Nella zona del Vulture, nella parte nord est, troviamo il re dei vitigni di questa regione, l’Aglianico del Vulture, che qui ha trovato il sito ideale per esprimersi e donare vini di grande stoffa. I terreni che compongono il vulcano spento del Vulture (1326 m s.l.m.), sono composti da un piccolo strato superficiale di tufo di due metri, sopra terreni sabbiosi-limosi o argillosi. Il terreno è ricco di potassio e il tufo garantisce durante le estati con poca pioggia un buon apporto di umidità, assicurando ai vini prodotti, freschezza, sapidità e mineralità.

    La tradizione vinicola di questa regione si perde nella notte dei tempi, Si pensa che furono i navigatori Fenici, venuti a contatto con il popolo dei Lyki, chiamati poi Lucani (Lucania era chiamata l’antica Basilicata), a far conoscere la viticoltura, ma con molta più probabilità i primi maglioli di vite furono portati in Basilicata dai coloni greci, sbarcati ad Eraclea, antica città della Magna Grecia (odierna Policoro). Le ricche vestigia archeologiche hanno restituito, fra l’altro, parte del tempio dedicato a Dioniso, con epigrafi dove sono descritti gli appezzamenti destinati alla coltivazione della vite.

    Uno dei vanti di questa regione è quello di aver dato i natali al poeta Orazio (Venosa 65 – Roma 8 a.C.), che lodò le uve, i vini, i cereali e le olive della sua terra. In quei lontani tempi erano rinomati i vini di Buxentum (Policastro), di Thurium e quelli dei colli di Sibari come Lagaria, usato anche come medicamento.

    La superficie vitata copre poco meno di 4500 ettari con una produzione di circa 190mila ettolitri; ma gli stili produttivi e l’aspetto ampelografico ci consentono di dividere la Basilicata in tre aree.

    L’area più importante – per quanto riguarda la storia, l’attualità della vite e del vino di qualità – è senza dubbio quella del Vulture, in provincia di Potenza. Questo comprensorio vitivinicolo è legato a un complesso vulcanico oggi spento, che all’interno del cratere racchiude i laghi di Monticchio, inoltre comprende quindici comuni: Rionero in Vulture, Barile, Rampolla, Ripacandida, Ginestra, Maschito, Forenza, Acerenza, Melfi, Atella, Venosa, Lavello, Palazzo San Gervasio, Banzi e Genzano di Lucania.

    In questa zona, tra i 200-500 m di altitudine, ha trovato il suo habitat ideale il vitigno Aglianico, il cui nome e il sistema tradizionale di allevamento manifestano inconfondibili derivazioni greche.

    Dalle uve dell’Aglianico si ottiene uno dei più grandi vini del panorama enologico italiano, prodotto dai grappoli che maturano tardivamente, favorendo rossi potenti e corposi che necessitano d’invecchiamento per alcuni anni, quattro per il Superiore, prima di uscire sul mercato.

    Le uve migliori, o meglio le uve di quella che viene considerata la zona migliore, si trovano tra i 550 e 650 m s.l.m., nei pressi di San Savino; tra Rionero del Vulture e Ripacandida, i vitigni sono allevati verticalmente con variazioni di «guyot», sostenuti da pareti di canne disposte generalmente a un metro di distanza l’uno dall’altro, ma in alcune zone si trovano anche a mezzo metro, con una densità forse unica al mondo, 20mila ceppi/ha. La buona versatilità di questo vitigno si presta all’elaborazione di rosati strutturati e di spumanti metodo Classico.

    La Val d’Agri, sempre in provincia di Potenza, è un territorio molto interessante, i vigneti sono impiantati tra i 200-600 m s.l.m., su terreni ricchi di sabbia e argilla; da agosto a ottobre sfruttano le fortissime escursioni termiche. Servendosi di queste condizioni pedoclimatiche i vari Merlot, Cabernet, Sauvignon, Sangiovese e Montepulciano danno vini strutturati, molto profumati e speziati. Nel frattempo, nella zona di Roccanova, sempre in Val d’Agri, dove l’estate è breve, si va via via sempre più sviluppando la coltivazione biologica che riesce a tradurre molto bene le caratteristiche di questo «terroir».

    Digradanti verso il mar Jonio troviamo il territorio che viene identificato come Matera DOC, che affida il toponimo alla famosa e unica città, Patrimonio dell’umanità, Matera, con il suo nucleo più antico, «il Sasso», dominato dal Duomo.

    Il clima asciutto e caldo favorisce vini prodotti dal vitigno Primitivo, dai piacevoli profumi di ribes, lampone e note di pepe bianco, assolutamente da gustare – con i piatti della tradizione come la purea di fave e cicoria o i fusilli con le fave – l’ottimo bianco di Greco.

    Particolare, il Moscato Dolce prodotto nel Vulture, da assaporare magari intingendoci gli ottimi biscotti con mandorle e noci. Un consiglio per i più golosi: non si può lasciare la regione senza aver provato la cotechinata, involtini di cotenna di maiale con battuta di lardo, aglio e prezzemolo o le salsicce locali, innaffiate da una vecchia bottiglia di Aglianico.

    Scelti per voi

    Alambre Moscatel de Setúbal
    La regione di Setúbal si trova a sud di Lisbona, tra i fiumi Tejo e l’estuario del Sado. È sulla Serra da Arrábida, formata da diverse composizioni di suoli argillo-calcarei che maturano le uve del Moscatel de Setúbal, godendo di un clima a dir poco canicolare. Risalente a vitigni portati dai coloni Greci, la sua dolcezza ricca, naturale, muschiata e la tendenza a fermentare in alta gradazione alcolica, ne hanno fatto un bene altamente commerciabile.
    Già nel Medioevo era uno dei vini più apprezzati nelle corti europee, conosciuto con il nome di «Osoye».
    La fortificazione del vino avviene, come per il Porto, arrestando la fermentazione con alcol di uva, ma lasciato poi a sedimentare sulle fecce durante l’inverno. Dopo circa sei mesi di sedimentazione si pigia (unico al mondo) la polpa dell’uva, e il vino che si ottiene viene messo in botti, pronto per un eventuale assemblaggio. Lasciato per cinque anni a livello del suolo per beneficiare delle variazioni stagionali di temperatura, il vino acquista maturità e concentrazione. Dal colore topazio che va all’ambra, con note di noce, datteri, scorze d’arancio pungenti e speziati, una fresca dolcezza che ricorda il miele, lo raccomandiamo di certo per accompagnare una sfogliatina al cioccolato e pasticceria varia, ma provate a consumarlo anche con un cremoso gorgonzola.

    / Davide Comoli

  • Il Simposio Greco

    Vino nella storia – Un «bere insieme» senza strafare ma per discutere, cantare, fare rituali e filosofeggiare

    Gli antichi Greci avevano un profondo culto per il vino e proprio da questo culto nacque il rito del «simposio». Anche se – come già sappiamo – tra le righe dei poemi omerici si beveva dopo il pasto, fu infatti solo nel VI sec. a.C. che l’importanza di questo momento si accrebbe tanto da ritenere necessario creargli un nome in modo da definirlo con un termine particolare.

    «Simposio» è un lemma greco, si tratta di una parola attestata per la prima volta in testi di Focilide e Alceo e significa «bere insieme». Da qui ha preso forma e con il tempo si è evoluto il nostro modo d’intendere il vino come un momento di socialità.

    Nel symposion ci s’incontra per il piacere di stare insieme e parlare, parlare a ruota libera, di filosofia, arte, politica e scienza, dice un frammento di Focilide: «Giova fra il giro delle coppe, nel simposio starsene a bere e bere conversando».

    Senz’altro ci si concedeva anche un po’ di gossip, per rendere la conversazione più scoppiettante, ma era nella maggior parte dei casi un chiacchiericcio di classe o se preferite una raffinata maldicenza.

    Nel symposion non si beveva smodatamente, ma si sorseggiava il vino, e c’è una grande differenza, va detto, tra chi degusta il vino e chi semplicemente lo beve.

    Il bere vino puro era ritenuto dai Greci una usanza da barbari; nelle Leggi di Platone sta scritto: «Sciti e Traci bevono vino non annacquato e credono di far cosa bella versandoselo sulle vesti».

    Senòfane, nei suoi testi filosofici Intorno alla natura (delle cose) afferma che «Il vino richiede la sua parte di acqua e di conversazione». Non solo il vino puro, ma anche il vino mescolato in parte uguale con acqua, veniva già considerato ubriacante, cioè in grado di stordire. A seconda del tipo di vino o delle preferenze personali, l’acqua veniva riscaldata o raffreddata con la neve, oppure ancora si poteva per diluizione usare acqua di mare. L’acqua doveva essere prevalente, tant’è che si raccomandava una proporzione di tre parti d’acqua e una di vino, sebbene in un frammento di testo del poeta Anacreonte troviamo scritto: «Su portaci ragazzo, una grande coppa per berla in un fiato, presto versa dieci misure d’acqua, cinque di vino per penetrarsi senza oltraggio del furore di Dioniso…».

    Era quindi usanza fra i convitati eleggere un «simposiarca», cui spettava il compito di fungere da guida nel simposio, dirigendo il servizio del vino, stabilendo le proporzioni della miscela nei vari crateri e decidendo la quantità di vino che ogni convitato doveva bere ad ogni giro.

    Il symposion era un momento importante nella vita e nella società greca; lo testimonia l’incredibile quantità di manufatti in ceramica che ci sono pervenuti. Il «cratere» che poteva essere di varie forme, era l’oggetto più importante e normalmente troneggiava al centro della tavola, c’erano le olla e l’oinochoe nei quali si serviva il vino; l’olpe e la pelike usate come recipienti da tavola, l’hydria per l’acqua calda o fredda (di rado a temperatura ambiente), i pithos, usati per la conservazione del vino, senza contare i vari kyathos, skyphos, kylix, rhyton, kantharos e il curioso psykter usato per raffreddare la sacra bevanda. Sì, proprio sacra, perché oltre ad avere un profondo valore conviviale, il vino lo si utilizzava nei sacrifici agli dèi. Infatti, nulla veniva intrapreso senza un sacrificio di vino alle loro molteplici divinità.

    Agli inizi il symposion era fortemente legato a un rito religioso in onore del dio Dioniso, rito ricco di significati per la vita sociale, una vera e propria cerimonia che avveniva dopo i pasti. Finito il convito serale, la sala veniva ripulita, i commensali si lavavano le mani e sulle mense venivano posti dolci dorati, frutta, miele, formaggi e il luogo veniva deliziato da musiche. I partecipanti avvolgevano le loro teste con una fascia di lana rossa e si ornavano con corone di mirto, e di fiori di edera, la pianta sacra a Dioniso.

    La poesia e le esecuzioni poetiche erano parte inscindibile dal simposio, così ne parla il poeta Senòfane (VI a.C.). «Il pavimento lustra, mani, tazze pulite. Uno ci pone in capo le ghirlande, un altro tende fiale di balsamo. Il cratere troneggia pieno di serenità. Altro vino promette di non tradirci mai, è in serbo nei boccali, sa di fiore. Ha ciascuno il suo pane biondo, la salda mensa è carica di cacio e miele denso. La casa è avvolta di festa e musica».

    Il poeta lirico Bacchilide (520-450 a.C.) visse a lungo a Siracusa. Fu un grande rivale di Pindaro e dedicò i migliori carmi a Ierone, il tiranno della città sicula, nei quali auspicava per questo momento: «Non lusso di tappeti e ori, ma il canto e il vino dolce di Beozia».

    All’inizio del simposio tutti i partecipanti eseguivano insieme un canto corale in onore di Apollo: il peana; poi un ramo di mirto passava da mano in mano e chi lo riceveva intonava un canto ispirato a un particolare momento, a una stagione, a un avvenimento o a un sentimento. I partecipanti componevano dei carmi o ripetevano quelli già affermati, e l’accompagnamento musicale era strettamente connesso con i versi. Gli strumenti passavano, trasversalmente da un lato all’altro delle tavole, nelle mani di chi si accingeva a cantare.

    Il poeta faceva conoscere all’uditorio qualcosa di se stesso. Non più di grandi imprese del passato o di eroi, raccontava, ma di qualcosa del presente e di personale. La presenza della poesia era sentita come un elemento che distingueva il mondo greco da quello barbaro.

    Scelto per voi

    Il Cardo Bianco è un vino prodotto con uve Chardonnay 70% e Merlot vinificate in bianco per il restante 30% dai Fratelli Meroni a Biasca. Qui nelle Valli di Blenio, Riviera e Leventina, la tradizione vitivinicola è radicata nella roccia dei terreni dal forte tenore di tessitura (granito, gneiss), che riducono la terra fine a disposizione delle radici, che con caparbietà simile a quella dei due produttori cercano di penetrare in profondità, alla ricerca delle sostanze nutritive. Siamo di fronte a una «viticoltura eroica di montagna», portata avanti da uomini forti che praticano quest’arte nel tempo libero dal lavoro.
    I grappoli in queste terre molto spesso si crogiolano al sole, penzolando da pergole sostenute da piloni di granito per evitare di diventare cibo per caprioli e tassi. Il Cardo Bianco si presenta con una veste giallo paglierino, con leggeri riflessi verdognoli, al naso si percepisce una gamma olfattiva giocata dall’intensità delle uve, frutta gialla e tropicale per lo Chardonnay, fiori gialli e mela per il bianco di Merlot: fresco di acidità, è piacevole da bere.
    Consigliato su un’insalata di mare, salmone affumicato e risotti, noi lo abbiamo provato con dei formaggi locali, gustati in uno di quei simpatici Grotti che si trovano nei villaggi sulle sponde del Brenno, dove cordialità e simpatia sono di casa.

    / Davide Comoli

  • Il più bel giardino vitato d’Europa

    Bacco Giramondo – Il Trentino vitivinicolo non spicca per quantità ma per qualità

    A giudicare dalle testimonianze giunte sino ai giorni nostri della cultura neolitica, dell’Età del bronzo e del ferro (soprattutto di quest’ultima) – durante la quale compaiono nell’odierno Trentino parecchi «castellieri» sulle cime delle colline – si può affermare con certezza che la vite già cresceva fiorente nella regione.

    Gli Etruschi arrivarono in questa terra creduta per secoli dominio di fate, elfi, giganti e orchi, perché costretti dalla spinta dei Celti a cercare nuovi spazi verso nord. Un antichissimo vaso destinato a contenere vino da offrire agli dei fu ritrovato sul Dos Caslir nel lontano 1825 e oggi esposto al museo del Castello del Buonconsiglio a Trento, attesta la nostra affermazione.

    Sulla «situla» bronzea di origine reto-etrusca, la cui datazione è compresa tra il V e VII secolo a.C., è incisa la più lunga iscrizione nord-etrusca che si conosca: «Velcanu Rupnu e Pitiave Kusenkus, dedicano (questo dono) a Lavisio, il giovane dio del vino».

    Il piccolo agglomerato cinto di mura che sorgeva sulla riva sinistra dell’Adige, già produceva vino chiamato genericamente «Retico» dai primi legionari di Roma (confuso molto spesso con quello prodotto in Valtellina e nel Veronese). Si narra che lo stesso imperatore Augusto (63 a.C.-14 d.C.) avesse una predilezione per i vini di Tridentum, appena assurta al rango di «urbe romana».

    Durante le invasioni barbariche, la vite abbandonò le valli e i colli trentini per ritirarsi in luoghi montani più appartati, ma la sua coltivazione continuò grazie all’opera degli Ordini Cluniacensi e Benedettini.

    La produzione vinicola trentina ebbe momenti splendidi, grazie al cardinale Bernardo Clesio, all’epoca del «lungo» Concilio di Trento (1547-1563), e quando la raffinata corte Asburgica di Vienna si riforniva con abbondanza di «Vin dei siori» in Vallagarina.

    Il Trentino è una regione montuosa chiusa in due grandi zone dal fiume Adige. Alla destra del fiume si innalza il dolomitico del Brenta ai confini con la Lombardia e l’Alto Adige, i massicci dell’Ortels e dell’Adamello, dove si aprono le valli di Non e di Sole. Alla sua sinistra troviamo il monte Baldo, i Lessini e il massiccio del Pasubio, oltre al settore sud occidentale delle Dolomiti, dove il bacino dell’Avisio e del Fersina formano le valli di Fassa, Fiemme e Cembra, oltre l’alta valle del Brenta (Valsugana). La maggior parte del territorio si trova in un’area a metà tra il clima alpino e quello più temperato, come in Vallagarina e nella Valle dell’Adige, con terreni di natura calcarea dolomitica. Mentre nelle zone collinari del lago di Garda, troviamo un clima simile al Mediterraneo, ai piedi dell’Adamello e dell’Ortels il clima è invece decisamente alpino.

    Le notevoli escursioni termiche, consentono alle uve di arricchirsi di profumi, mentre le precipitazioni sono ben distribuite nel corso dell’anno.

    La superficie vitata è di circa 10mila ettari, con netta prevalenza dei vitigni bianchi, con il 70% della vinificazione, dove primeggia la produzione di vino spumante «metodo classico» elaborato principalmente da Chardonnay, simbolo dell’enologia trentina. Non è certo la quantità la caratteristica della produzione vinicola trentina: il pregio è dato dalla qualità.

    Definito da molti «il più bel giardino vitato d’Europa», il Trentino è un modello di efficienza enologica e tecnologica, emblematici sono i suoi confini a forma di foglia di vite e il gioiello di questo giardino è l’Istituto Agrario di San Michele all’Adige, una delle più qualificate scuole enologiche a livello mondiale.

    La «pergola trentina» è il sistema tradizionale dell’allevamento della vite: pergola semplice sui declivi, pergola doppia nei fondovalle. Nuovi impianti, tuttavia, incominciano ad adottare la «spalliera verticale», più facile da lavorare. Le due denominazioni che coprono 72 comuni della regione sono Trento e Trentino; mentre la prima è interamente dedicata ai vini spumanti metodo Classico, la seconda offre una paletta di vini più ampia di ottimo livello, divisa in più sottozone o a specifiche aree di produzione, ma andiamo a scoprire i vini/vitigni e le zone di produzione.

    Indiscussi protagonisti della viticoltura trentina – in coppia rappresentano il 50 per cento e oltre della produzione – sono lo Chardonnay e il Pinot Grigio. Nel comprensorio di Trento, soprattutto nella Valdadige salendo il confine con la provincia di Verona, lo Chardonnay – con alcuni vitigni minori come il Pinot Bianco e il Pinot Mounier – ci regala eleganti vini spumanti metodo classico, vini che possono coprire tutta una cena, mentre lo Chardonnay in versione ferma di questa zona, trova il giusto abbinamento con le insalate di frutti di mare. Andando verso Roveré della Luna, ci imbattiamo nell’altro grande bianco della regione, il Pinot Grigio, vinificato in bianco e qualche volta nella tradizionale versione «ramata», con i suoi profumi di pera, mela, fiori bianchi e gialli e fieno secco, ottimo con i risotti agli asparagi.

    Nella Valle dei Laghi, lungo il corso dell’Adige, troviamo l’elegante e suadente Moscato Giallo, bevendolo percepiamo nel nostro calice i richiami propri dell’uva: con la frutta in genere non si consigliano vini, ma provatelo con un’insalata di frutta fresca al naturale.

    Tra Mezzocorona e la frazione di Grumo di San Michele all’Adige, nella piana del fiume Noce, troviamo la culla del Teroldego, o Rotaliano, grande vino rosso da salmì di lepre o camoscio, oppure con formaggi come il Puzzone di Moena e il Trentingrana.

    In Val di Cembra, lungo il torrente Avisio, nel comune di Lavis, l’uomo ha aiutato la natura a creare splendidi paesaggi; qui le temperature decisamente fredde favoriscono la coltivazione del Müller-Thurgau, ottimo come aperitivo e in particolare con gli spaghetti alle vongole. Interessanti sono pure il Pinot Bianco da abbinare alla famosa «trota blu».

    Il clima temperato del lago di Garda, nella romantica Valle Sacra punteggiata di castelli, aggrappata alle pergole trentine, prospera la Nosiola che, dopo un lungo appassimento su graticci e almeno un paio di anni in botte, dà origine al Vin Santo Trentino, uno splendido vino da abbinare alla torta di nocciole o al più celebre Strudel, ma pure alla golosa «torta di castagne». Troviamo invece un po’ dappertutto il Merlot, il Cabernet Franc e il sempre più raro Rebo, dal colore impenetrabile.

    Nei terreni sabbiosi della cosiddetta Terra dei Forti, cresce l’Enantio, un rosso già citato da Plinio (I secolo a.C.), ma è sulle colline basaltiche di Isera nella Vallagarina che troviamo la massima espressione del Marzemino, già conosciuto nel 1769 dal giovane Mozart e vino di corte degli Asburgo, quindi: «che si versi un Marzemino» come nel finale del Don Giovanni, ma con la polenta e i funghi.

    Scelto per voi

    Barbaresco 2017 – Adriano
    Tra i 250-300 m di altitudine, su terreni generalmente argillo-calcarei, tra i comuni di Neive, Treiso e Barbaresco, dal vitigno Nebbiolo si vinifica uno dei vini più eleganti tra quelli italiani: il «Barbaresco». Il «Basarin» Barbaresco, prodotto dai fratelli Marco e Vittorio Adriano, è l’espressione più pura del Nebbiolo, con profumi spesso più maturi all’olfatto che in fase gustativa, ma che dopo una buona ossigenazione svela le sue stratificazioni e la sua complessità. L’Azienda si contraddistingue anche per la produzione dei classici vini della tradizione piemontese.
    Questo «Basarin» è un Barbaresco dalla pura raffinatezza, elegante, che si concede con classe: nel bouquet di fiori e di erbe essiccate al sole, emergono i sentori di terra di Langa, si aprono le spezie e i profumi di cuoio, dai tannini vivi, sensazione ormai rara, che ben si sposa a una cucina succulenta e autunnale come una «guancetta di manzo stufata» o per i più forti un «gran fritto alla piemontese».

    / Davide Comoli

  • Il divin dono per Omero ed Esiodo

    Vino nella storia – Non solo intravisto nel girovagare dell’Odissea o decantato nei momenti di convivialità, ma anche ben descritto e trattato saggiamente da un punto di vista agricolo

    Il primo grande incontro tra il vino e la poesia, l’abbiamo trovato da adolescenti, quando studenti (poco vogliosi) frequentavamo il Collegio Don Bosco di Borgomanero. Lo studio dei due poemi omerici l’Iliade e l’Odissea, pur senza l’aiuto della divina bevanda, ci fece volare e sognare, segnando un po’ la via che avremmo intrapreso.

    Sembra che fosse stato Pisistrato, ateniese e uomo politico di grande cultura (600-528 a.C.), a suddividere entrambi i poemi in 24 canti, istituendo nella sua città una commissione di poeti e letterati per la raccolta e l’ordinamento dell’Iliade e dell’Odissea.

    Omero, è il poeta di un’arcaica convivialità. Sia nell’Iliade sia nell’Odissea, si possono individuare molti riferimenti ai modi di bere e ai vini di quei tempi molto lontani. Il vino scorre a fiumi fra i versi dei poemi omerici; intercalati dalle gesta di guerrieri, bevono Greci, ovvero Danai, Troiani e da genti di molti altri Paesi. Più che fondato quindi l’appellativo che il poeta latino Orazio volle attribuire all’aedo greco: «Vinosus Homerus». Raccontando delle città d’origine dei capi degli Achei, descrivendone i pregi, non trascura di segnalare tra questi la presenza di rigogliose viti, tracciando pure un quadro geografico della distribuzione dei vigneti, ancora oggi abbastanza attuale e dal quale abbiamo tratto sicuro vantaggio nei nostri viaggi.

    «Arne dai molti grappoli d’uva… Istiea ricche di vigne… Epidauro ricca di vigneti…» sono solo alcune zone descritte. Il poeta cita anche Pramno come uno dei luoghi famosi per il suo vino. Se ben ricordate, è proprio il vino di Pramno che Circe, la famosa maga, mescolandolo a droghe, offre ai compagni di Odisseo, o Ulisse che dir si voglia, prima di trasformarli in porci (Odissea X, 223-234).

    Il vino di Lemno viene dato agli Achei come premio per aver costruito in modo veloce un muro di difesa dagli attacchi troiani: «erano là a riva molte navi, venivano da Lemno con un carico di vino… le inviava Euneo» (Iliade VII, 467-471).

    E come si arguisce dalla traduzione di Vincenzo Monti (1754-1828) – la traduzione dell’Iliade e dell’Odissea fu senz’altro il suo capolavoro – il vino, almeno nel campo Acheo, dove più agevoli erano gli approvvigionamenti, veniva consumato in grande quantità.

    Vale la pena concederci anche una curiosità: Omero definì il vino di Euneo «amichevole dono», il testo greco dice chilia metra, ossia mille misure e Vincenzo Monti tradusse metra in sestieri. Noi volevamo sapere di più, con alcuni amici abbiamo consultato il vocabolario Greco-Italiano del Rocci, il quale citando proprio il VII libro dell’Iliade, dice che il metron greco è probabilmente da identificare con il sáton cartaginese, cioè circa 12 litri. Quindi, mille misure fanno se non sbagliamo 12mila litri o se preferite 120 ettolitri. Ecco il perché si dice: «una bevuta Omerica»!

    Nell’Odissea (V, 68-69), Omero narra la bellezza dell’isola di Ogigia, dove Odisseo visse sette anni con la ninfa Calipso, raccontando la sua rigogliosa vegetazione e sottolineando che «si stendeva vigorosa con i suoi tralci intorno alla grotta profonda la vite, tutta carica di grappoli».

    Da Omero a Esiodo, definito il poeta contadino: era nativo della Beozia e cronologicamente si situa subito dopo l’età dei poemi omerici. Le sue opere sono considerate altrettanto importanti. Vissuto tra l’VIII e il VII sec. a.C., fu autore fra l’altro delle Opere e Giorni, poema del lavoro georgico, costituito da 828 esametri.

    Nella sua opera non troviamo guerrieri né imprese belliche, ma le costellazioni, i contadini con i loro aratri, i segni della natura, vendemmie e mietiture.

    A proposito della viticoltura, il poeta riconosce nell’arco dell’anno cinque momenti riferibili alla vite e al vino: la potatura, la zappatura, la vendemmia, il vino nuovo e il momento nel quale il vino è migliore da bere. Fra queste fasi la potatura e la vendemmia risultano fondamentali.

    Per meglio istruire sul momento migliore per eseguire queste operazioni, Esiodo utilizza segnali di diverso tipo per essere meglio compreso. Per la potatura, ad esempio, vengono indicati limiti temporali connessi a dati astronomici, al comportamento delle rondini, all’arrivo di una nuova stagione.

    La zappatura delle vigne deve essere eseguita in un tempo limite, determinato dal momento in cui la «porta-casa» (vale a dire la chiocciola) sale sugli alberi o dal momento in cui le Pleiadi risultano percettibili nella luce del crepuscolo (maggio).

    Il tempo della vendemmia, mostra la sua importanza nella serie di lavori agricoli e per il numero di riferimenti astronomici che ne permettono il calcolo; questi eventi corrispondono all’incirca alla metà di settembre e il poeta scrive: «Quando Orione e Sirio son giunti a mezzo del cielo e Arturo può esser visto da Aurora dalle dita di rosa, o Perse, allora tutti i grappoli cogli e portali a casa. Tienili al sole per dieci giorni e dieci notti, per cinque conservali all’ombra, al sesto versa nei vasi i doni di Dioniso giocondo».

    Oltre alle istruzioni sul periodo della vendemmia, Esiodo dà anche indicazioni su come trattare l’uva raccolta. Dopo la pigiatura e la fermentazione, il momento in cui è pronto il vino nuovo è a sua volta segno di altri avvenimenti, come l’arrivo del brutto tempo, la chiusura dell’anno agricolo e l’impossibilità di navigare.

    Vogliamo ricordare ai nostri lettori che una vendemmia fatta a settembre, quando l’uva era veramente «percocta», cioè molto matura, dava un vino ad alta gradazione alcolica e per questo forse fra gli antichi Greci non era consuetudine bere vino puro.

    Scelto per voi: Carrara 2016

    Qualità, esclusività, innovazione in campo enologico e la grande passione per la viticoltura, è questo in sintesi il personaggio Giuliano Cormano.
    Con la moglie, Giuliano ha profuso il suo impegno non solo per il dono di Bacco, ma le persone che si recano nella sua Cantina possono pure spaziare su altre delizie culinarie come: olio, aceto balsamico, confetture e persino del cioccolato che la «maison» produce.
    La bassa resa in vigna su vecchi ceppi hanno permesso di produrre vini pluripremiati nei vari concorsi. Il «Carrara» che oggi vi proponiamo è prodotto con uve Merlot cento per cento, coltivate su di un appezzamento di 0,5 ettari in quel di Morbio Inferiore.
    I ceppi di Merlot vecchi di 35 anni, hanno regalato un vino che, dopo essere stato affinato per 12 mesi (metà barrique, metà inox), ci dona un rosso dove si fondono note di lamponi e frutti rossi, con sentori balsamici che maturando ci fanno avvertire quelle sfumature di sottobosco e tartufo bianco, le quali ci trasportano con la mente in un viaggio olfattivo mai dimenticato. Pulito e molto fine, lo consigliamo con un risotto alle animelle o con un filetto di manzo al pepe.

    /Davide Comoli