Vino nella storia – Molte le iscrizioni all’interno delle piramidi che fanno riferimento al nettare di uva, ma anche a quello di datteri e di melagrana
È attingendo ai nostri scatti fotografici e memorie – che abbiamo raccolto, e continuiamo a raccogliere – che entriamo in punta di piedi nello spirito delle attività agricole degli Antichi. Ed è grazie al rileggere copie di remoti papiri o incisioni geografiche, o all’immergersi nella lettura di pagine di autori greci o latini, che ci sembra quasi, soprattutto nei silenzi notturni, di entrare in un mondo bucolico; nei loro campi, nelle loro vigne. Ci sembra quasi di essere presenti nella loro economia famigliare.
Le Lodi alla vita rustica di Albio Tibullo (69-19 ca. a.C.) è il libro che, lo confessiamo, sta da sempre sul nostro comodino, perché alle volte ci è di conforto dopo giornate faticose e notti in cui si fa fatica a prender sonno.
Erodoto di Alicarnasso (V sec. a.C.) considerato dagli antichi il «padre della storia», chiamò l’Egitto «dono del Nilo». L’agricoltura fu la principale e grandiosa risorsa di questo Paese. Grazie al sopraccitato Erodoto, i Greci furono i primi a descrivere con dovizia di particolari l’Egitto.
Un geroglifico attinente alla Prima Dinastia, verso il 3000 a.C., indica il termine «vite», mentre il termine «irp» che indica vino, incomincia ad apparire solo nei testi della Seconda Dinastia, 2700 a.C. circa. È dalla Quinta Dinastia – 2400 a.C. – che all’interno delle piramidi vengono scolpiti dei testi religiosi usati nei riti funebri regali, i cosiddetti «Testi delle Piramidi». In questi testi notiamo una chiara sacralità nei confronti del vino. Ma le piramidi rappresentano per noi altre fonti d’informazione. Sui loro muri antichissimi troviamo infatti rappresentate operazioni relative alla produzione del vino, scene di vendemmia, trasporto dell’uva, pigiatura, torchiatura e travaso del mosto nelle giare.
Su alcuni papiri si trovano riferimenti a diversi tipi di bevande. Al fianco della birra e del vino che erano le bevande tradizionali, troviamo citati vino di melagrana, vino di datteri, e mosto dolce non fermentato. Abbiamo pure trovato interessanti i riferimenti allo «shedek», bevanda che viene descritta come molto inebriante, particolarmente apprezzata dai giovani.
Molto frequenti sono pure le citazioni di una bevanda ottenuta lasciando fermentare il lattice colato dall’incisione del tronco delle palme di dattero e chiamato vino di palma.
Era di fatto il vino dolce più apprezzato, e se ne trova traccia sul papiro in onore della città di Tanis nel Delta – luogo che Ramses II (1289-1224 a.C,) aveva riscostruito e rinnovato, facendone la sua capitale –; su questo papiro si può infatti leggere quanto segue: «Son giunto a Tanis e l’ho trovata in condizioni molto buone… / i suoi granai sono pieni di orzo e grano: / melagrane, olive, mele e fichi del frutteto. / Vino dolce di Ka-en-Kemet che vince il miele».
Le iscrizioni sulle anfore ritrovate nella tomba del faraone Ramses II (1200 a.C. circa), ci rivelano ben trentaquattro denominazioni geografiche di diverse località dove veniva prodotto il vino; centri importanti per la produzione erano l’oasi di Kharga, il Fayyum e la Tebaide con la città di Copto.
Ma il vino egiziano, per quanto conosciuto nell’area del Mediterraneo, non aveva grande rilievo sul mercato e, considerati i rapporti che l’Egitto aveva con gli altri popoli, sappiamo, sempre attraverso le varie iscrizioni, quanto importanti fossero le importazioni di vino.
Grazie a quanto si può leggere su un manoscritto datato 300 a.C., sappiamo della richiesta a un certo Lisimaco da parte del dieceta Apollonio, al quale erano state assegnate delle terre, per avere dei piantoni di alberi di vite e di frutta. La risposta di Lisimaco comprendeva una lista di ben undici varietà di vite.
Nell’antichità, la Palestina era celebre per i suoi vini. Sinuhe, famoso medico reale egizio vissuto durante la XII Dinastia, ci ha lasciato un documento in cui scrive: «in quella terra, vi son fichi e uva, e il vino è più diffuso dell’acqua».
Tuttavia, il più antico e prezioso documento in cui noi possiamo attingere e cercare informazioni sul tema vitivinicolo è l’Antico Testamento. Nella Bibbia infatti troviamo molte attestazioni che dimostrano come il vino (yayin), fosse considerato una merce preziosa e molto importante.
Nel Libro dei Numeri si legge che gli uomini inviati da Mosè a esplorare le terre di Canaan, giunti a Hebron «tagliarono un tralcio con un grappolo d’uva, che portarono con una stanga in due». Anche la toponomastica di quei luoghi ci dà la conferma di come la viticoltura fosse importante.
Presso Hebron, infatti, troviamo località con nomi come: «Prato delle Vigne», «Casa della Vigna», «Grappolo», «Luogo di Uve». Si può dedurre quindi come il vino si fosse solidamente affermato nella società, tant’è vero che ne conosciamo il nome di alcune tipologie. Tirosh (vino nuovo), Shekar (vino forte), Ashishah (vino mescolato al mosto), Yayin ha-rekah (vino speziato). Oltre a queste tipologie, la Bibbia fa riferimento a molti tipi di vini e ne descrive i vari impieghi, che vanno dai rituali sacri all’utilizzo in campo medico e ad altri meno nobili come l’utilizzo come tintura.
Curioso è l’apologo che troviamo nel Libro dei Giudici, dove la vite viene invitata a regnare su tutti gli alberi. Tuttavia, la vite preferisce assolvere le proprie generose funzioni più che incensarsi e non rinuncerà al suo mosto che dà gioia. Grande esempio di saggezza che ci dà la vite in questa parabola, ma un altro pregevole riferimento lo troviamo in Siracide (24,17), dove la saggezza personificata dice di se stessa: «Come una vite ho splendidi pampini, i miei fiori portano frutti di gloria e di ricchezza».
Questa stele funeraria di Tembu ha una decorazione che mostra, tra le scene di offerta, una delle figlie della coppia che si trova davanti alla grande giara di vino decorata con una «nymphaea caerulea» e presenta una coppa di vino ai suoi genitori. Proviene dall’antica città di Tebe occidentale, Egitto (Walters Art Museum)
Heida 2018
Vero gioiello della vinicoltura vallesana, la maison Robert Gilliard, fondata nel lontano 1885, ha continuato negli anni a espandersi e a modernizzarsi. Il vigneto di sua proprietà conta più di cinquanta ettari. Molti sono i vitigni che vengono vinificati, tutti appartenenti al vasto mondo ampelografico del Canton Vallese.
L’Heida ha una storia molto antica, che sa di leggenda anche un po’ nebulosa: c’è chi parla di origini del nord della Francia, chi addirittura di origini retiche, portata dalle legioni romane. L’Heida che oggi vi proponiamo è prodotto con il Sauvignon Blanc della famiglia dei Traminer, nel basso Vallese, ed è conosciuto con il nome di Païen. Matura in altitudine e come tutti i vitigni vallesani, grazie al favonio.
Vale la pena provare questa gemma della famiglia Gilliard, rimarrete sorpresi dai suoi deliziosi profumi di noci e nocciole. L’Heida è un bianco secco, con una buona acidità e note un po’ rustiche di pane di segale che restano a lungo in bocca. Sopporta bene l’invecchiamento, per questo noi consigliamo di berlo dopo 2-3 anni di permanenza in bottiglia. Sono pochi i produttori che vinificano questa specialità, è quindi un privilegio poterla gustare. Da accompagnare ai piatti di salumeria affumicata, ai formaggi nostri delle Alpi e ai pesci d’acqua dolce, in modo particolare alle trote di fiume.
/ Davide Comoli