Vino nella storia – Quando il nettare di Bacco incontrò le spezie e finì sulle tavole degli aristocratici
Il dotto pisano Burgundio (1110-1193), letterato, giurista, diplomatico, fu un personaggio celebre soprattutto per le sue traduzioni di testi medici, Galeno in modo particolare, fra l’altro scrisse un ricettario in cui si occupava di metodi di vinificazione. Testo, quest’ultimo, che venne copiato e ricopiato più volte, in modo quasi integrale nei secoli successivi da personaggi come: Pietro de’ Crescenzi, Corniolo della Cornia, Arnaldo da Villanova.
Tra le curiosità che abbiamo trovato sfogliando una vecchia copia di questo celebre testo, una delle più stimolanti è lo spazio dedicato ai vini aromatizzati. Infatti nel XII sec. si sviluppò molto la moda delle spezie, grazie soprattutto alle navi della Serenissima che avevano ripreso i traffici con l’Oriente, praticamente interrotti con la caduta dell’Impero Romano.
Il vino trattato con le spezie venne chiamato all’inizio con il nome di vinus odorifer o vinus aromaticus. Era in effetti difficile dare un nome a un prodotto composto da vino mescolato con l’alchimia o la magia. In ogni caso, all’inizio, erano vini per le sole mense aristocratiche. Uno degli aspetti che sicuramente contribuì al successo di questa formula, fu il ruolo che assunsero sia vino sia spezie nella preparazione di prodotti terapeutici. Di loro, l’inglese Bartolomeo Anglico (1190-1250), autore di una pregevole enciclopedia composta da 19 libri (De Proprietatibus Rerum) scrisse che «sono vini fatti con la forza di buone spezie e che sono adatti sia come bevanda che come medicina. In virtù delle spezie e delle erbe si cambia e si corregge il vino e gli si dà una virtù singolare e perciò quei vini sono completi e apprezzabili quando spezie e delle erbe sono incorporati ad esso in modo dovuto. Così il loro sapore, sono graditi al gusto ed eccitano l’appetito e confortano sia il cervello che lo stomaco e con il loro buon odore e profumo puliscono anche il sangue e lo purificano e vengono nelle parti interne delle vene e delle membra».
È sempre grazie al dotto Burgundio che apprendiamo il nome della principale preparazione medica del passato: la Teriaca dal greco Theriaké che significa antidoto. L’invenzione della Teriaca è attribuita a Crateva, medico personale di Mitridate re del Ponto (133-64 a.C.). Il monarca viveva nel terrore di essere avvelenato, Crateva, dopo lunghi studi, mescolò tra loro ben 54 medicamenti cosiddetti «semplici» che aggiunse alla composizione del principe degli «antidoti». Nel 63 a.C. con Pompeo, portò a Roma la meravigliosa ricetta che venne in seguito usata da Andromaco il Vecchio, medico di Nerone che, come molti altri monarchi, viveva nel terrore di essere avvelenato.
Fu poi Claudio Galeno, con la sua autorità in campo medico, a sostenere la Teriaca. Tant’è che il medicamento continuò a essere usato per tutto il Medioevo e il Rinascimento: fu somministrato da medici e farmacisti, ottenendo grande fiducia, fino agli inizi del 1800.
Uno dei componenti principali della Teriaca era costituito dalla carne di serpente cotta nel vino. Considerato l’essenza dell’immortalità, il serpente veniva cotto nel vino perché si riteneva che questo fosse in grado di impregnarsi dell’essenza immortale dell’animale, assumendo così potenza e valori magici. Si pensava o meglio si credeva che così facendo il vino potesse dare a chi lo assumeva la capacità di essere immune ai veleni e prolungare la vita, e che voi cari lettori, ci crediate o no, questa unione decisamente originale venne difesa per un lunghissimo periodo da moltissimi medici.
L’elenco dei nomi dei medici che impiegavano ricette in cui nel vino venivano messe a macerare delle vipere è lungo, ma uno per tutti fu Galeno, il quale dichiarava che l’unico vino indicato per la Teriaca era il Falerno dolce, chiamato Faustiniano e lasciò scritto: «A chi si avvicina alla vecchiaia consiglio di bere la Teriaca spesso, ed in dose piuttosto elevata, sciolta nel vino, perché rinfranchi il calore naturale che comincia a languire». L’aspetto importante a livello enologico è il collegamento del vino alle erbe medicinali, in modo da preparare vini realizzati per i loro aspetti sensoriali, creati dall’unione di molti elementi sovrapposti in modo da adattarli piacevolmente agli uomini e alle complessioni dei pazienti. Lo dimostrano le ricette inserite negli antichi ricettari di pratiche enologiche, dove ritroviamo le stesse erbe e spezie che componevano la Teriaca: mirra, nardo, cinnamomo, pepe, salvia, rosmarino, assenzio, ecc. A partire dal 1200 ogni ricettario o testo di agronomia non poteva esimersi dal presentare un vino aromatizzato. Fu così che diventò necessario dare un nome al vino aromatizzato per eccellenza, quello che doveva accompagnare le mense dei nobili ed essere bevuto dagli aristocratici: Ippocrasso (Ypocras), vino di Ippocrate, collegato al medico greco, simbolo dell’arte medica.
Gli scopi di questi vini erano vari, in certi casi si trattava di vini usati per scopi medicinali, in altri si trattava di migliorare vini carenti di aromi o per renderli almeno bevibili (leggere le opere di Arnaldo da Villanova). Di certo le ricette più divertenti sono quelle che ci ha lasciato il notissimo François Rabelais (1494-1553), il papà di Gargantua e Pantagruele che, forse non tutti lo sanno, fu anche uno dei medici più colti del suo tempo.
Come per i suoi romanzi, Rabelais, che senz’altro era un estimatore e un conoscitore di vini e spirito vivace, ci descrive con stile satirico la diversità delle erbe usate per l’aromatizzazione. Questo per far capire la differenza tra il vino bevuto per il piacere e l’idea del vino bevuto come medicina, sottolineando bene la distinzione tra le erbe e le spezie. Per questo, quando egli parla di Ippocrasso è ben lontano di paludarsi con vesti da sapiente medico, ma invita a bere senza troppe remore e trarre piacere dal buon vino, con gaiezza e leggerezza.
Visitando la Devinière, la sua casa natale nella Loira, ci pareva di udire le sue grasse risate, mentre ci offrivano il bianco di casa (Chenin Blanc) con un pizzico di cardamomo, zenzero e un po’ di zucchero; e sinceramente va detto che questo novello Ippocrasso non era niente male.
Figlio del suo tempo, l’Ippocrasso, vino saporito e profumato, contribuiva a innalzare lo status symbol di chi lo offriva ai suoi ospiti; era, insomma, segno di un’elevata posizione sociale servire l’Ippocrasso in quest’epoca in cui nasce la «follia delle spezie» e per questo diventò l’elemento che completava i pranzi di gala. Ma dato che si parla di spezie, bisogna sfatare la convinzione errata secondo cui l’uso di queste servisse a coprire le puzze dei cibi mal conservati: leggendo attentamente le ricette medioevali, si nota una grande volontà di trovare nelle spezie nuove armonie ed equilibri ben meditati, per dare ai cibi e alle bevande nuove sensazioni organolettiche.
Per tornare all’Ippocrasso, il momento più consono per il suo consumo era a fine pasto con i confetti, il marzapane e dolcetti vari, come oggi d’altronde si fa con i vari Porto e Marsala.
/ Davide Comoli