Bacco giramondo – Lo scrittore comasco dedicò ben venticinque capitoli della Naturalis Historia alla viticoltura e al vino, più qualche altra annotazione sparsa qua e là
Nei nostri articoli citiamo (e citeremo) spesso il nome di Plinio il Vecchio. Certo è che questo famoso personaggio dell’antichità non ha bisogno di presentazione, ma pensiamo che in questa nostra rubrica dedicata al vino, bisogna conoscere meglio quest’uomo dai molteplici interessi. Per questo non ci pare giusto non spendere qualche parola per chi alla vite, al vino, alle tecniche di vinificazione e affinamento ha dedicato addirittura un intero libro della sua monumentale opera, la Naturalis historia.
Gaius Plinius Secundus, meglio conosciuto come Plinio il Vecchio, per meglio distinguerlo dall’altrettanto celebre nipote Plinio il Giovane (61-113 d.C.), illustre letterato sotto l’impero di Traiano, nacque a Como nel 23 d.C.; al termine di una brillante carriera militare amministrativa, nel 79 fu nominato ammiraglio della flotta imperiale di stanza a Capo Miseno.
Con la sua vasta cultura, spaziò in tutti i campi del sapere, lasciandoci la testimonianza nella più vasta e completa opera enciclopedica dell’antichità. Nei suoi 37 libri, l’opera affronta tutti i temi che a quell’epoca presentavano interessi scientifici. Partendo dal II libro con la cosmologia, prosegue con la geografia fisico-politica, le scienze naturali, la zoologia e la botanica, la medicina e la farmacopea per concludere nel 37esimo libro con le pietre preziose. Nel primo libro, con geniale intuizione, Plinio compilò per ciascuno dei 36 argomenti i vari indici, inserendo anche le relative fonti.
Coerente sino alla morte a una vita interamente dedicata alla scienza, fu certamente la vittima più illustre dell’eruzione del Vesuvio che nel 75 d.C. distrusse e sommerse con la lava Ercolano, Stabia e Pompei. Plinio infatti accorse con le sue navi nel generoso tentativo di salvare i superstiti, ma anche con la curiosità di vedere da vicino quello straordinario fenomeno della natura.
I 25 capitoli riguardanti in modo specifico la viticoltura e il vino, li troviamo nel XIV libro, ma l’argomento peraltro non è esaurito in quella sede. Nel libro VXII infatti tratta dell’arboricoltura, e descrive dettagliatamente i problemi relativi all’esposizione delle vigne, all’innesto, ai metodi di coltivazione e alle malattie delle piante.
Mentre si rimanda al XVIII libro, l’elenco degli usi medicinali della vite e dei suoi derivati, naturalmente vino compreso.
Lo spazio che Plinio dedica alla vite è molto: perché? Lo spiega lui stesso: «rispetto alla quale l’Italia ha una supremazia così incontestata, da dare impressione con questa risorsa di aver superato le ricchezze di ogni altro paese, persino di quelli che producono profumo. Del resto, non c’è al mondo delizia maggiore del profumo della vite in fiore» (N.H. XIV, 2).
Nella sua opera, Plinio ha trattato pochi altri temi con altrettanta dovizia e cura. Nessun dubbio sull’importanza del vino da parte dell’autore, a cui si attribuisce addirittura lo sviluppo dell’umanità, che lui stesso evidenzia: «Noi uomini dobbiamo al vino la prerogativa di essere i soli esseri viventi che bevono senza avere sete» (N.H. XXIII, 23).
Il libro dedicato alla viticoltura è da sempre sul nostro comodino, le sue pagine si leggono con molto interesse, in primis perché ci fanno conoscere il punto in cui all’inizio della nostra era si trovava la conoscenza nel campo enologico e poi perché contengono molte curiosità e una serie di vivaci annotazioni.
Ad esempio, Plinio cita l’anno «magico» del vino, che continuava ed essere il 633esimo dalla fondazione dell’Urbe (per noi il 121 a.C., anno in cui era Console Lucio Opimio, i cui vini erano diventati i leggendari «opimiani»). Annata della quale ancora sul finire del I sec. d.C. si consumavano i vini «vecchi di quasi duecento anni e ormai trasformati in una sorta di miele amaro» (N.H. XIV, 55).
Sui quali vini era lecito peraltro lasciarsi andare alle più bizzarre stranezze, come quella nel celebre banchetto di Trimalcione, descritto nel Satyricon di Petronio (50-60 d.C. circa), in cui vengono servite «anfore di cristallo accuratamente sigillate che portano etichette con la scritta Falerno Opimiano di cento anni».
Nel XIV libro non può non stupire il lungo e dettagliato elenco delle varietà di viti già allora conosciute e presenti nella Penisola. Tra le più diffuse Plinio cita: la vite Aminea, le Nomentane, le Apiane, le Murgentine. Queste le principali e poi vengono elencate l’Albano, il Barino, il Cecubo, il Formiano, il Mamertino, ma sono moltissimi i vini che l’autore elenca nel suo XIV libro e magari in futuro li descriveremo. Addirittura, Plinio arriva a stilare una classifica che oseremmo dire potrebbe imbarazzare qualche esperto dei nostri giorni.
Al primo posto pone il Cecubo, prodotto nei pressi di Terracina, poi viene il Falerno, prodotto da viti allevate sulla fascia tra Lazio e Volturno; seguono i vini dei Colli Albani a pari merito con quelli della costa sorrentina. Alla fine del lungo elenco con grande saggezza Plinio scrive: «Non c’è dubbio che ad alcuni piacciono più certi tipi di vino, ad altri, altri vini e che di due vini provenienti dallo stesso tino, uno migliore, superi in qualità l’altro, per quanto affine, grazie al recipiente che lo contiene, ovvero a circostanze casuali. Motivo per cui ognuno proclamerà sé stesso giudice del vino migliore». Al termine della sua approfondita dissertazione, Plinio, individuando per primo (2000 anni or sono!) l’importante ruolo del terreno, scrive: «(sul vino) influiscono la regione e il tipo di terreno, non l’uva, è quindi inutile voler enunciare tutte le specie perché una vite dà risultati diversi secondo i luoghi».
Sempre dal XIV libro, apprendiamo curiosità interessanti, scopriamo infatti che fu Giulio Cesare il primo, all’epoca del suo terzo consolato, a servire audacemente durante un banchetto 4 tipologie diverse di vino: il Falerno e il Mamertino, di provenienza italica, e il Lesbio e il Chio, vini greci (N.H. XI, 97). Sotto l’impero di Tiberio (42 a.C.-37 d.C.), nacque invece la moda di bere a digiuno «e di far precedere di preferenza il vino alle vivande, procedura anche questa straniera e caldeggiata dai medici che si distinguono sempre per qualche novità» (N.H. XIV, 143).
Per meglio mettersi in mostra a Tiberio (successore di Augusto), un certo Novello Attico da Milano, proconsole della Gallia Narbonense, divenne famoso per aver ingollato quasi d’un fiato, al cospetto dell’imperatore, tre corgi (= 10 l) di vino; al bevitore valse l’inequivocabile soprannome di «Tricorgius».
Questa, onestamente, non la conoscevamo, ma grazie al capitolo 18 del XIV libro, veniamo ad apprendere che poco prima della battaglia di Azio (dove ne uscì sconfitto), Marco Antonio (sì, proprio quello di Cleopatra), rese pubblico un trattato scritto da lui sulla propria ubriachezza.
Concludiamo, per gli interessati, dicendo che nel libro XXIII si parla delle virtù medicinali della vite e del vino in ben 23 capitoli degli 83 complessivi.
Scelto per voi
Le Chicche rare
Pioniere del marchio «Vinatura», per contraddistinguere i vigneti che seguono i criteri della produzione integrata, Stefano Haldemann nel suo vecchio rustico a Gudo, che funge da cantina, imbottiglia vinificando in maniera separata vitigni rari quasi dimenticati. E lo fa raccogliendo su diverse parcelle, molte delle quali situate in zone alle volte ripide e impervie. Riservato e caparbio, Stefano continua a considerare il vino come un alimento accessibile a tutti, da qui la sua politica nel contenere i prezzi.
Indimenticabile per noi un pomeriggio sotto il pergolato del suo rustico, trascorso a degustare la sua Bondola che profumava di ciliegie/amarene.
La sua passione per i vitigni d’altri tempi lo ha portato a realizzare «Le Chicche rare»: più di venti vitigni dell’area Lombarda/Piemontese e qualche altro legato all’immigrazione in Francia, compongono questo vino tributo a «Pro Specie Rara».
«Le Chicche rare» non è un vino da abbinare a piatti raffinati e ricercati, ma è un vino da bere assolutamente fresco 13°/14°, sulla terrazza nelle serate o nei pomeriggi d’estate, abbinato a piatti semplici della nostra cultura contadina. Il suo profumo farà tornare bambini molti di noi e ricordare le cantine dei nostri nonni.
/ Davide Comoli