Vino nella storia – Un «bere insieme» senza strafare ma per discutere, cantare, fare rituali e filosofeggiare
Gli antichi Greci avevano un profondo culto per il vino e proprio da questo culto nacque il rito del «simposio». Anche se – come già sappiamo – tra le righe dei poemi omerici si beveva dopo il pasto, fu infatti solo nel VI sec. a.C. che l’importanza di questo momento si accrebbe tanto da ritenere necessario creargli un nome in modo da definirlo con un termine particolare.
«Simposio» è un lemma greco, si tratta di una parola attestata per la prima volta in testi di Focilide e Alceo e significa «bere insieme». Da qui ha preso forma e con il tempo si è evoluto il nostro modo d’intendere il vino come un momento di socialità.
Nel symposion ci s’incontra per il piacere di stare insieme e parlare, parlare a ruota libera, di filosofia, arte, politica e scienza, dice un frammento di Focilide: «Giova fra il giro delle coppe, nel simposio starsene a bere e bere conversando».
Senz’altro ci si concedeva anche un po’ di gossip, per rendere la conversazione più scoppiettante, ma era nella maggior parte dei casi un chiacchiericcio di classe o se preferite una raffinata maldicenza.
Nel symposion non si beveva smodatamente, ma si sorseggiava il vino, e c’è una grande differenza, va detto, tra chi degusta il vino e chi semplicemente lo beve.
Il bere vino puro era ritenuto dai Greci una usanza da barbari; nelle Leggi di Platone sta scritto: «Sciti e Traci bevono vino non annacquato e credono di far cosa bella versandoselo sulle vesti».
Senòfane, nei suoi testi filosofici Intorno alla natura (delle cose) afferma che «Il vino richiede la sua parte di acqua e di conversazione». Non solo il vino puro, ma anche il vino mescolato in parte uguale con acqua, veniva già considerato ubriacante, cioè in grado di stordire. A seconda del tipo di vino o delle preferenze personali, l’acqua veniva riscaldata o raffreddata con la neve, oppure ancora si poteva per diluizione usare acqua di mare. L’acqua doveva essere prevalente, tant’è che si raccomandava una proporzione di tre parti d’acqua e una di vino, sebbene in un frammento di testo del poeta Anacreonte troviamo scritto: «Su portaci ragazzo, una grande coppa per berla in un fiato, presto versa dieci misure d’acqua, cinque di vino per penetrarsi senza oltraggio del furore di Dioniso…».
Era quindi usanza fra i convitati eleggere un «simposiarca», cui spettava il compito di fungere da guida nel simposio, dirigendo il servizio del vino, stabilendo le proporzioni della miscela nei vari crateri e decidendo la quantità di vino che ogni convitato doveva bere ad ogni giro.
Il symposion era un momento importante nella vita e nella società greca; lo testimonia l’incredibile quantità di manufatti in ceramica che ci sono pervenuti. Il «cratere» che poteva essere di varie forme, era l’oggetto più importante e normalmente troneggiava al centro della tavola, c’erano le olla e l’oinochoe nei quali si serviva il vino; l’olpe e la pelike usate come recipienti da tavola, l’hydria per l’acqua calda o fredda (di rado a temperatura ambiente), i pithos, usati per la conservazione del vino, senza contare i vari kyathos, skyphos, kylix, rhyton, kantharos e il curioso psykter usato per raffreddare la sacra bevanda. Sì, proprio sacra, perché oltre ad avere un profondo valore conviviale, il vino lo si utilizzava nei sacrifici agli dèi. Infatti, nulla veniva intrapreso senza un sacrificio di vino alle loro molteplici divinità.
Agli inizi il symposion era fortemente legato a un rito religioso in onore del dio Dioniso, rito ricco di significati per la vita sociale, una vera e propria cerimonia che avveniva dopo i pasti. Finito il convito serale, la sala veniva ripulita, i commensali si lavavano le mani e sulle mense venivano posti dolci dorati, frutta, miele, formaggi e il luogo veniva deliziato da musiche. I partecipanti avvolgevano le loro teste con una fascia di lana rossa e si ornavano con corone di mirto, e di fiori di edera, la pianta sacra a Dioniso.
La poesia e le esecuzioni poetiche erano parte inscindibile dal simposio, così ne parla il poeta Senòfane (VI a.C.). «Il pavimento lustra, mani, tazze pulite. Uno ci pone in capo le ghirlande, un altro tende fiale di balsamo. Il cratere troneggia pieno di serenità. Altro vino promette di non tradirci mai, è in serbo nei boccali, sa di fiore. Ha ciascuno il suo pane biondo, la salda mensa è carica di cacio e miele denso. La casa è avvolta di festa e musica».
Il poeta lirico Bacchilide (520-450 a.C.) visse a lungo a Siracusa. Fu un grande rivale di Pindaro e dedicò i migliori carmi a Ierone, il tiranno della città sicula, nei quali auspicava per questo momento: «Non lusso di tappeti e ori, ma il canto e il vino dolce di Beozia».
All’inizio del simposio tutti i partecipanti eseguivano insieme un canto corale in onore di Apollo: il peana; poi un ramo di mirto passava da mano in mano e chi lo riceveva intonava un canto ispirato a un particolare momento, a una stagione, a un avvenimento o a un sentimento. I partecipanti componevano dei carmi o ripetevano quelli già affermati, e l’accompagnamento musicale era strettamente connesso con i versi. Gli strumenti passavano, trasversalmente da un lato all’altro delle tavole, nelle mani di chi si accingeva a cantare.
Il poeta faceva conoscere all’uditorio qualcosa di se stesso. Non più di grandi imprese del passato o di eroi, raccontava, ma di qualcosa del presente e di personale. La presenza della poesia era sentita come un elemento che distingueva il mondo greco da quello barbaro.
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/ Davide Comoli