Vino nella storia – Nel 1300 il vino era soprattutto un solvente alcolico al quale venivano aggiunte varie sostanze come base di preparazioni medicinali – Quarta parte
Come la storia ci ricorda, non tutta la cultura medica dell’epoca voleva stare sotto il diretto controllo della Chiesa, con grande pericolo per l’incolumità generale. Uno dei personaggi più famosi che rappresentano questa parte medica meno «allineata» fu Arnaldo di Villanova (1235-1311). Sia la Spagna sia la Francia ne rivendicano le origini: secondo i primi nacque a Villanueva, piccolo villaggio della Catalogna, a parere dei francesi, nacque invece a Villeneuve-Loubet presso Nizza (paese da cui proviene il grande maestro della cucina Georges Auguste Escoffier 1846-1935). All’apice della sua carriera, Arnaldo era visto come il miglior fisico alchimista della sua epoca, e insegnava alla Facoltà di Medicina di Montpellier, fondata il 26 ottobre 1289. Il suo pensiero, poco ortodosso dal punto di vista teologico, gli creò non pochi nemici tra ecclesiastici e accademici. Accusato di eresia dalla Santa Inquisizione, fu salvato in extremis da Papa Bonifacio VIII.
Una delle sue opere più famose è Liber de Vinis, in cui troviamo, oltre alle personali osservazioni, numerose credenze dell’epoca legate alle qualità terapeutiche del vino. Leggendo un passo da quest’opera scritta nel 1300 e raccolta nel 1524, ci rendiamo conto di come era difficile abbandonare i dettami del passato: «Il vino bianco è migliore per il corpo umano. Perché esso è più soffice e ricettivo in tutti i suoi vapori. Esso trasporta tutte le virtù delle sostanze incorporate, attraverso le membra naturalmente e piacevolmente». In quest’opera si contano ben quarantanove ricette a base di vino. A lui dobbiamo pure la traduzione in latino dei testi del grande medico e filosofo Avicenna (alias Ibn Sina, alias Abu Ali, 980-1037), il quale con la sua opera Canone di Medicina ebbe molta influenza sul Medioevo. Ma il Villanova è ricordato soprattutto perché fu uno dei primi a prestare attenzione ai distillati di uva/vino chiamati aqua vitae (acqua della vita): le ferite lavate con «i distillati di vino – scrisse – si cicatrizzano più facilmente».
A Villanova dobbiamo pure il perfezionamento con il processo chiamato mutage: aggiungendo spiriti al vino per fermarne la fermentazione e preservarne la dolcezza, inventò i «vin doux naturel» antenati del nostro Vermouth e dei vini fortificati.
Da notare come dietro l’interesse di Arnaldo di Villanova nei confronti della distillazione del vino ci fosse «l’alchimia», che a quell’epoca aveva cominciato a diffondersi in tutta Europa. Non va dimenticato che uno dei suoi scopi primari era infatti la ricerca «dell’elisir di lunga vita» o dell’immortalità. Questo coinvolgimento del vino in modo irrazionale, ci fa capire con quanta lentezza la storia medica dell’epoca abbia fatto dei passi avanti. Alla fine del XIV sec., l’uso del vino a scopo terapeutico prevedeva due diversi tipi d’applicazione: quello interno e quello esterno al corpo umano. In quell’epoca il vino era soprattutto un solvente alcolico, al quale venivano aggiunte varie sostanze come base di preparazioni medicinali.
Al vino presto s’affiancano distillati di uva, grano, eccetera, e ogni monastero cominciò di conseguenza a dotarsi di una propria raccolta di piante medicinali, droghe e spezie (pigmentarius), antesignane delle nostre farmacie. Va ricordato che, all’epoca, la polvere da sparo ancora non era entrata in scena e quindi le ferite da arma da taglio erano quelle che creavano più problemi ai chirurghi di quel tempo. Infatti, il Medioevo non fu affatto un periodo felice per questa importante disciplina medica. La pratica della chirurgia fu addirittura, anche se per breve durata, proibita ai monaci dall’Editto di Tours (1162).
I chirurghi militari, tra i quali ricordiamo Henri de Mondeville (1260-1320), il quale aveva già preconizzato l’immediata sutura delle ferite, incoraggiava la consumazione di vino subito dopo l’intervento (contrariamente agli insegnamenti di Ippocrate). Il vino veniva comunemente usato per stordire i pazienti prima di un intervento, ed era usato come antisettico per disinfettare le ferite.
Fino al XVI sec. il dibattito sull’uso del vino in chirurgia attraversò l’Europa. Al centro della disputa, stavano due fazioni di medici: il contrasto verteva sul modo migliore per cicatrizzare le ferite. Da una parte i sostenitori che cercavano di provocare in modo esplicito la suppurazione delle ferite, dall’altra di coloro che le disinfettavano inumidendole con il vino. Tra questi ultimi spicca il nome del francese Guy de Chauliac che predicava meraviglie sull’uso del Muscat de Frontignan.
I poteri antisettici del vino ebbero però modo di essere dimostrati quando in Europa, verso la metà del XIV sec., scoppiò l’epidemia di peste nera, che per la rapidità di contagio e la imprevedibilità destava infinito sgomento. A Milano, i pochi medici rimasti consigliavano prima di uscire di casa di bere, a scopo profilattico, un bicchiere di vino bianco. Nel Decamerone del Boccaccio, si racconta che durante la grande epidemia del 1348, l’Università di Medicina di Parigi raccomandasse come prevenzione di bere un brodo preparato tagliando il vino con un sesto d’acqua mischiato a pepe, cannella e spezie.
Era insomma questo del XIV sec. il periodo in cui dominavano i «vini pigmentati» Claretum, Pigmentum e l’Hypocras, che con l’aggiunta di varianti si cercava di rendere più appetitosi possibile, ed erano considerati come una sorta di panacea per tutti i mali.
Queste preparazioni che, come abbiamo visto, affondavano le loro radici in epoche molto più lontane, diventarono sempre più elaborate. Intorno ad esse fiorì un lucroso commercio, che finì per alimentare numerose truffe per lungo tempo, raggirando molte persone. Una ricetta del 1600 della Farmacopea della città di Londra recitava ad esempio: «Vino all’acciaio, corteccia peruviana, urina umana, occhi di granchio e whisky irlandese».
Delizia 2018
Giugno «si spalanca come una rosa nel bicchiere», così scriveva Giuseppe Marotta. Queste parole ci sono tornate in mente quando abbiamo degustato il «Delizia 2018», prodotto da Roberto Belossi nella sua Cantina il Cavaliere nel comune di Gambarogno.
Prodotto con uve Merlot, allevate sui fianchi del Ceneri dominanti il Lago Maggiore, dopo una breve macerazione sulle bucce, nasce il Delizia. Vino rosato, conviviale, ottimo come benvenuto per accogliere gli amici che vengono a farci visita.
Il suo colore ricorda i petali di certe peonie, il suo profumo è fresco, delicato e floreale, dove ritroviamo i sentori di rosa con una leggera sfumatura di fragoline di bosco. Abbastanza leggero di alcol, ha un finale piacevolissimo che invita a bere un secondo bicchiere, magari sulla terrazza godendo della bella stagione. S’accompagna magnificamente a piccoli bocconcini d’antipasti non troppo pesanti. È un vino che permette di passare a tavola senza rovinare l’appetito. Il Delizia certamente non disdegna i primi piatti.
/ Davide Comoli