Enologia – Come sono nati i vini con le bollicine? Nel primo articolo di una serie dedicata a questa caratteristica preziosa ripercorriamo un gustoso itinerario nel passato
L’origine delle bollicine nel vino, per centinaia di secoli fu considerata misteriosa. Fu Pasteur (1822-1895) con le sue ricerche sui meccanismi fermentativi a far chiarezza, spiegando che le bollicine non provengono altro che dalla fermentazione operata dai lieviti, che trasformano gli zuccheri contenuti nel vino in alcol e anidride carbonica, in modo che il gas che si forma all’interno, emergendo dal vino dà le bollicine. I vini più antichi con le bollicine (oggi si chiamerebbero frizzanti), provenivano da una sola fermentazione spontanea o controllata dagli zuccheri di mosti o vini dolci, svolta in anfore di terracotta chiuse ermeticamente.
È invece di questi ultimi secoli l’ottenimento di vini spumanti o frizzanti, ottenuti con due fermentazioni, di cui la seconda (rifermentazione) ha lo scopo di produrre le bollicine. L’introduzione ci pare sufficiente per sollecitare alcune domande: chi ha scoperto il fenomeno dei vini spumanti? Quando e come la attuavano i nostri antenati? Con che cosa? Prima di cominciare il viaggio nel tempo, ringrazio il dott. Mario Fregoni, docente di viticoltura all’Università Cattolica Sacro Cuore di Piacenza, che con i suoi scritti ci ha fornito molte indicazioni. Le citazioni in epoca romana sui vini spumanti sono ampie e si devono a Virgilio, Properzio, Lucano e Columella. Ma se vogliamo tornare un po’ più indietro nel tempo, molti di noi ricorderanno i versi di Omero, quando descrive lo scudo di Achille (scolpito da Vulcano) nel XVIII libro dell’Iliade. Il vate greco descrive il momento in cui i contadini intenti all’aratura venivano rifocillati da: «un uomo che giva in volta, e lor ponea nelle man un nappo spumante di dolcissimo bacco».
Non è di certo una semplice espressione poetica, per la semplice ragione che il vino in natura ha sempre prodotto bollicine senza l’intervento dell’uomo.Negli scritti di Lucano (39-65 d.C.), troviamo questa frase: «Indomitum Meroe cogens spumare Falernum». A quell’epoca si otteneva uno spumante dal famoso vino Falerno, con l’aggiunta di mosto di uve appassite di una varietà chiamata Meroe, originaria dell’Etiopia.Uno spumante di questo tipo (ma le uve erano quelle dell’odierno Catarratto), fu servito al popolo romano da Cesare, in onore della presentazione di Cleopatra. Questo ci mostra come i romani conoscessero il modo per creare le: «bullulae».
Anche Columella (I sec. d.C.), descrive la tradizione della produzione del «defrutum» o della «sapa», mosti concentrati con ebollizione (per evaporazione dell’acqua) sino al 50% o addirittura ad 1/3. Questi mosti concentrati venivano aggiunti al mosto in fermentazione per aumentare il grado alcolico oppure per ottenere una rifermentazione.
Saliens, Spumans, Titillans, Spumescens, questi erano i termini con i quali indicavano i vini frizzanti o spumanti.I vini spumanti dell’epoca, erano pure divisi in due categorie, gli Aigleucos e gli Acinatici. I primi erano prodotti dal mosto, la cui fermentazione veniva impedita o meglio ritardata, immergendo le anfore vinarie in acque fredde, alfine di avere vino frizzante per più lungo tempo. A Pompei è stata scoperta una cantina avente un cunicolo attraversato in continuazione da acqua fredda. L’Acinatico, era invece prodotto con mosto di uve appassite, è il caso del Falerno citato sopra. Troviamo questo vino descritto da Cassiodoro (490-585 d.C.), che ben conosceva gli acinatici del Veronese (l’attuale Recioto) e il Torchiato di Fregona (passito del Trevigiano).
Nel buio del Medioevo, è la famosa Scuola Salernitana a citare dei vini con le bollicine. Nel Regimen Sanitatis, si consiglia un moderato uso di vini frizzanti. Siamo agli inizi del 1100, e nella stessa epoca troviamo degli scritti sui vini frizzanti della Toscana. Nel 1544 i Benedettini di Saint-Hilaire a Limoux (Languedoc), certificarono la loro Blanquette, vino prodotto (allora) con il solo Mauzac. Il prodotto subiva una rifermentazione in bottiglia, chiamato: méthode Ancestrale.
Nel Rinascimento si continuò a mantenere il gas nelle botti, cercando di tenerle chiuse il più possibile e a bassa temperatura durante la fermentazione. Per ottenere la rifermentazione, si poneva il vino sulle vinacce fresche, oppure si «tagliava» con il mosto nuovo, o si faceva appassire l’uva e dalla sua pigiatura si otteneva un mosto zuccherino capace di far rifermentare sia il vino giovane che quello vecchio.
Grande consumatore di vini frizzanti fu il Papa più enofilo di tutti i tempi, Paolo III Farnese (1468-1549), che oltre a conoscere tutti vini italiani, amava in modo particolare quelli vivaci di Castell’Arquato (PC).Fra i nomi medioevali usati per i vini frizzanti si rammentano quelli di: «mordaci, piccanti, raspanti e razzenti».
Oeil de Perdrix (Les Petits Crêtes)
Orientati a sud est, i vigneti neocastellani beneficiano di un clima favorevole, un po’ più fresco di quello dei vigneti delle rive del Lemano. I terrazzi sulle sponde del lago fanno di Neuchâtel il quarto cantone romando per superfice vinicola.Les Petits Crêtes, matura tra Boudry e Cortaillod, su terreni molto antichi, composti da molasse e calcare, qui esclusivamente dal Pinot Nero si ricava «l’Oeil de Perdrix».Furono i viticoltori neocastellani a scegliere per primi il nome evocatore «occhio di pernice», per il loro Pinot Nero vinificato in rosato: purtroppo, vittime di un eccesso di fiducia, supposero di essere i soli ad utilizzare questo poetico nome. Ma gli amanti di questo genere di vino, non si lasciano certo trarre in inganno da altri vini che portano lo stesso nome: il vero Oeil de Perdrix resta un prodotto caratteristico del territorio neocastellano. L’armonia aromatica, data dai profumi di fiori e di frutta e la sua grande finezza, fanno di questo prodotto l’ideale accompagnamento per: paella, quiche lorraine, carpaccio di manzo, ma per noi è esaltante su preparazioni di pollo o vitello in salsa curry.
/ Davide Comoli